È improbabile che vedremo Bibi Netanyahu in manette, processato nella corte d’assise di uno dei 124 Paesi che riconoscono la Corte penale internazionale (ICC), Italia inclusa. Ma i mandati di cattura emessi ieri dall’ICC, malgrado americani e israeliani avessero tentato di sventarli con manovre plateali, trascina conseguenze rilevanti.

Ora cosa succede?

Innanzitutto renderà più difficili per gli europei, che del ICC sono gli inventori, restare nascosti dietro lo stato stuporoso col quale finora hanno osservato la carneficina in atto a Gaza. I moniti corrucciati che di tanto in tanto rivolgono ad Israele ormai suonano ridicoli di fronte all’enormità dell’accusa precipitata su Netanyahu e sul suo ministro della Difesa, Gallant - crimini contro l’umanità consistenti «in omicidio, persecuzione e altri atti inumani» e «attacchi intenzionali contro la popolazione».

In maggio, quando il procuratore Karim Khan richiese alla Corte i mandati di arresto, quella decisione fu giudicata «scandalosa» da Biden, «inopportuna» dagli europei, e l’uno e gli altri decisero di ignorarla. Ora non è più possibile far finta di nulla, se non al prezzo di dichiarare la giustizia internazionale una burla e avviare ad una fine sordida l’epoca di quell’universalismo liberale che malgrado tutte le sue contraddizioni è uno dei migliori prodotti dell’Occidente e dell’Europa in particolare. Però accettare quantomeno l’ipotesi che Netanyahu sia non più il prezioso alleato ma un presunto criminale comporta frizioni con l’amministrazione Trump, esito che molti governi della Ue, tra i quali l’italiano, tenteranno di evitare con spericolate acrobazie. A costo di gettare via, insieme ai valori fondativi dell’Europa, anche la propria dignità?

In secondo luogo il verdetto della Corte scompagina il vasto schieramento politico-mediatico che in Occidente si affanna a difendere il governo israeliano con la motivazione che starebbe esercitando il sacrosanto diritto alla difesa, sia pure eccedendo. Non attiene al diritto alla difesa, citiamo il mandato di cattura, «privare intenzionalmente e consapevolmente la popolazione di Gaza di beni indispensabili alla propria sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicine e forniture ospedaliere, carburante, elettricità». O lanciare attacchi contro la popolazione.

Nei comportamenti militari israeliani c’è un di più che eccede anche l’eccesso. E rimanda a un obiettivo diverso dalla semplice autodifesa. Quel di più non è certo lo sterminio dei gazawi né semplicemente l’esercizio di una cieca vendetta. Si può ipotizzare, semmai, un piano per spingere una popolazione stremata a emigrare da un territorio reso invivibile; e per stroncare sul nascere l’ipotesi che la Striscia, ricongiungendosi con il West Bank, formi il prototipo di quel futuribile stato palestinese che la vasta maggioranza degli israeliani al momento rifiuta.

Insomma i mandati di cattura aprono una partita che potrebbe arrecare danni ancor più gravi all’immagine e ai progetti del governo Netanyahu. Non a caso nelle ultime settimane le destre gemellate americana e israeliana avevano lanciato una carica furiosa contro l’ICC. Se avesse deciso un mandato di cattura contro Netanyahu – preannunciava John Tune, prossimo capo del gruppo repubblicano al Senato – il Congresso avrebbe approvato sanzioni contro i giudici della Corte (dal divieto di ingresso negli Usa fino a restrizioni finanziarie estese anche a banche occidentali collegate con le americane).

E ancora: un gruppo di senatori repubblicani aveva chiesto all’ICC di sospendere l’inchiesta su Netanyahu fin quando non fosse chiarita una confusa storia di molestie sessuali per la quale il Wall street journal aveva opportunamente chiamato in causa il procuratore Karim Khan. Poi il governo israeliano: chiedeva fosse verificata l’imparzialità di uno dei tre giudici della Camera di Consiglio dell’ICC, chiamati a decidere sul mandato di cattura per Netanyahu.

La reazione di Israele

Pareva uno scontro impari, Davide contro il gigante Golia. Ma Davide, l’ICC, non si è lasciato spaventare. Per reazione ormai pavloviana il vertice israeliano ieri ha mosso alla Corte l’accusa che distribuisce con disinvoltura: antisemiti! Nel solito modo triviale e bombastico Netanyahu ha paragonato l’indagine a suo carico all’inquisizione contro Dreyfus e l’ha ricondotta alle mene di «un procuratore capo corrotto che sta tentando di salvarsi da serie accuse di molestie sessuali e da giudici di parte mossi da odio antisemita contro Israele».

Secondo il presidente Herzog la Corte ha scelto «la parte del terrore e del male rispetto alla democrazia e alla libertà». E il ministro Ben Gvir - che nelle ore precedenti aveva reso omaggio a Meir Kahane, assassino di civili musulmani – ha invitato Israele a reagire annettendosi i Territori occupati.

Tanta ira tradisce timori fondati. In un rapporto diffuso la settimana scorsa, Human Rights Watch, prestigiosa organizzazione americana per i diritti umani e spesso battistrada dell’ICC, per la prima volta ha configurato le operazioni militari israeliane come «pulizia etnica», termine di solito tabù per media e politica occidentali. Attraverso immagini satellitari, video e testimonianze HRW ha studiato 184 ordini di evacuazione diramati dalle autorità israeliane. Ed è arrivato a conclusioni sorprendenti.

Innanzitutto è «in larga misura falsa» la giustificazione israeliana, per la quale l’esercito ricorre alle evacuazioni per mettere in salvo i civili palestinesi quando sta per lanciare attacchi in quel dato territorio. «Non vi è alcun plausibile imperativo militare che giustifichi l’evacuazione in massa di quasi tutta la popolazione di Gaza».

Quei trasferimenti forzati «spesso servono unicamente a diffondere paura e ansia» (tanto più perché tanto le rotte dell’esodo quanto le “zone sicure” assegnate ai palestinesi vengono talvolta bombardate); oppure sono funzionali a desertificare aree in cui l’esercito si sta impiantando stabilmente, verosimilmente per farne in permanenza zone-cuscinetto o corridoi dove gli israeliani possano manovrare in sicurezza: «Queste azioni costituiscono pulizia etnica». Sommate «al danneggiamento o alla distruzione di ospedali, scuole, infrastrutture idriche ed energetiche, forni e terra agricola», rappresentano crimini contro l’umanità. E obbligano a domandarsi, si potrebbe aggiungere, come mai potrà sopravvivere in quella terra morta una popolazione ormai composta al 90 per cento di sfollati.

È antisemita l’HRW? Uno dei suoi finanziatori è George Soros, guardato in cagnesco come “finanza ebraica” da quelle destre europee che oggi sono allineate a Netanyahu. E sono ebrei tanto alcuni suoi ricercatori quanto il suo direttore storico, Ken Roth, che oggi insegnerebbe ad Harvard se alcuni donors di quell’università non si fossero opposti (motivo: due anni fa HRW denunciò come “Apartheid” il regime in vigore nel West Bank).

© Riproduzione riservata