Non vi è prova certa che, al momento in cui tenne i predetti comportamenti, l’imputato fosse in possesso di informazioni tali da ingenerare in lui la consapevolezza che gli effetti del suo operato avrebbero potuto assumere una notevole importanza per gli esponenti mafiosi per conto dei quali il Sindona svolgeva attività di riciclaggio. Ugualmente non vi è prova sufficiente che l’imputato abbia avuto consapevolezza dei sospetti emersi, anteriormente al 1974, sui collegamenti tra il Sindona ed ambienti mafiosi, sulla base delle indicazioni provenienti dal Narcotics Bureau degli Usa
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro–tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della sentenza di primo grado che ha assolto l’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti. La sentenza di secondo grado, confermata in Cassazione, ha accertato invece che – fino alla primavera del 1980 – Andreotti aveva avuto rapporti con i boss Cosa Nostra
Ciò posto, deve osservarsi che, nel periodo preso in esame, iniziative – assai diverse tra di loro per le modalità di estrinsecazione - tendenti a perseguire la realizzazione degli interessi del Sindona furono attuate, oltre che dal sen. Andreotti, anche da alcuni altri esponenti politici, da una parte del mondo economico-finanziario, da ambienti massonici legati alla loggia P 2, dai collaboratori e dai difensori del finanziere siciliano, e da soggetti appartenenti o vicini a “Cosa Nostra”.
Dalla sentenza n.20/86 emessa il 18 marzo 1986 dalla Corte di Assise di Milano si evince che alcune gravi manovre intimidatorie ebbero inizio nell’ottobre del 1978. Nell’autunno del 1978, infatti, come è stato evidenziato nella predetta pronunzia, il Sindona ed i suoi collaboratori avevano buone ragioni per ritenersi del tutto insoddisfatti dei risultati dei loro sforzi per promuovere i progetti di salvataggio, i quali non riuscivano a superare lo scoglio dell’opposizione da parte della Banca d’Italia e del Commissario liquidatore avv. Ambrosoli.
L’amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana dott. Francesco Cingano, il Direttore Generale della Banca d’Italia dott. Carlo Azeglio Ciampi, il Vice Direttore Generale della Banca d’Italia dott. Mario Sarcinelli, l’amministratore delegato del Credito Italiano dott. Rondelli, richiesti di un parere tecnico in seguito all’interessamento di influenti uomini politici, giudicarono impraticabile il progetto di sistemazione loro sottoposto. Uguale giudizio negativo venne espresso ripetutamente dal Commissario liquidatore avv. Giorgio Ambrosoli. Il Presidente di Mediobanca dott. Enrico Cuccia continuava a giudicare con scetticismo i vari progetti di sistemazione (v. la sentenza pronunziata il 18 marzo 1986 dalla Corte di Assise di Milano).
Nell’ottobre del 1978 ebbe pertanto inizio una pesante attività intimidatoria nei confronti del dott. Cuccia. Quest’ultimo tra il 9 ed il 12 ottobre 1978 ricevette una pluralità di telefonate anonime minatorie. In un incontro tenutosi il 18 ottobre a Zurigo con l’avv. Guzzi e il dott. Cuccia, il Magnoni lesse una lunga nota del Sindona, con la quale si voleva far credere che le telefonate anonime dei giorni precedenti fossero una iniziativa autonoma degli ambienti mafiosi italo-americani amici di Sindona, che tali ambienti sarebbero stati propensi ad uccidere il dott. Cuccia, e che per rabbonirli sarebbe stato necessario molto denaro; con la nota, inoltre, si intimava al dott. Cuccia di provvedere ad iniziative che “integrassero nei suoi averi” il Sindona e che “facessero cadere il mandato di cattura”.
Nonostante le minacce ricevute, il dott. Cuccia non si prestò a compiere un intervento per influire sulle decisioni della Banca d’Italia. Nella notte tra il 16 ed il 17 novembre 1978 il dott. Cuccia subì una nuova telefonata minatoria e, contemporaneamente, un attentato incendiario al portone della sua abitazione (cfr. la citata sentenza della Corte di Assise di Milano). Il 5 gennaio 1979 giunse al dott. Cuccia un’altra telefonata minatoria.
Nel corso di un incontro con il dott. Cuccia a Zurigo in data 22 marzo 1979, il Magnoni asserì di ritenere che vi fosse un collegamento tra le telefonate anonime rispettivamente ricevute dal presidente di Mediobanca e dal Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, sostenne che si era trattato di un “picciotto” il quale aveva agito di sua iniziativa per poter vantare dei meriti agli occhi del Sindona, aggiunse che la situazione del Sindona era divenuta particolarmente grave, esplicitò che il proprio suocero, nei giorni precedenti, aveva appreso dall’avvocato che manteneva i contatti con la mafia italo-americana che lui stesso era da considerarsi un uomo morto e che di conseguenza anche il dott. Cuccia ed i suoi familiari avrebbero dovuto essere uccisi, ed, a proposito dei rapporti del suocero con ambienti mafiosi, evidenziò che in pochi giorni la mafia americana aveva raccolto 500.000 dollari messi a disposizione del Sindona per fornire la cauzione.
Nel corso di un incontro con il dott. Cuccia a New York in data 11 aprile 1979, il Sindona affermò di avere esposto alle comunità italiane negli Usa quali erano state le “malefatte” compiute dal Presidente di Mediobanca verso di lui, spiegò che a seguito di questa propaganda la mafia aveva condannato a morte il dott. Cuccia e raccolto informazioni sui suoi figli, e aggiunse di avere fatto sospendere specifiche iniziative nei confronti del suo interlocutore poiché quest’ultimo poteva essergli più utile da vivo che da morto (cfr. la sentenza n.20/86 emessa il 18 marzo 1986 dalla Corte di Assise di Milano).
Tra il dicembre 1978 ed il gennaio 1979 anche l’avv. Ambrosoli fu oggetto di una pesante manovra intimidatoria, collegata con quella realizzata in danno del dott. Cuccia, come emergeva chiaramente sia dal contenuto dei messaggi di minaccia, sia dalla circostanza che l’autore di due telefonate anonime effettuate in un medesimo periodo si qualificò come “Ambrosoli” parlando con il dott. Cuccia e come “Cuccia” parlando con l’avv. Ambrosoli.
Il contenuto delle telefonate intimidatorie ricevute dall’avv. Ambrosoli il 28 dicembre 1978, il 5, l’8, il 9, il 10 ed il 12 gennaio 1979 è stato menzionato nel precedente paragrafo di questo capitolo, nel quale si è altresì rilevato come l’autore delle comunicazioni telefoniche del 9 gennaio 1979 sia stato identificato in Giacomo Vitale, e come l’intervento compiuto da costui sia riconducibile ad una matrice mafiosa.
La stretta correlazione ravvisabile - quanto al contenuto ed alla successione cronologica - tra le diverse telefonate anonime ricevute, in quel periodo, rispettivamente, dall’avv. Ambrosoli e dal dott. Cuccia, il suesposto modo di qualificarsi dell’autore delle telefonate, e le stesse asserzioni compiute dal Magnoni in data 22 marzo 1979, inducono ad inquadrare in un contesto mafioso la complessiva manovra intimidatoria posta in essere ai danni del Presidente di Mediobanca e del Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana negli ultimi mesi del 1978 e nel primo semestre del 1979.
Ciò posto, deve osservarsi che nelle telefonate minatorie del 9 gennaio 1979 il Vitale fece espresso riferimento all’on. Andreotti, affermando che quest’ultimo (indicato come il “capo grande”) aveva comunicato di avere “sistemato tutto” e di avere ottenuto che il dott. Ciampi telefonasse all’avv. Ambrosoli, aveva addebitato ogni colpa allo stesso Commissario liquidatore, ed aveva sostenuto che l’avv. Ambrosoli non voleva collaborare per aiutare il Sindona.
Le suindicate circostanze riferite da un esponente dello schieramento “moderato” di “Cosa Nostra” come il Vitale, direttamente impegnato in gravi attività illecite tendenti ad agevolare il Sindona nel suo sforzo di risolvere in modo a sé favorevole i propri problemi economici e giudiziari, evidenziano con assoluta chiarezza la particolare attenzione con cui i referenti mafiosi del finanziere siciliano seguivano le iniziative asseritamente poste in essere, a vantaggio di quest’ultimo, dal sen. Andreotti.
Le affermazioni del Vitale, pur apparendo vistosamente imprecise nella individuazione delle specifiche modalità che avevano contraddistinto l’intervento del sen. Andreotti, coglievano indubbiamente lo scopo cui tale intervento era rivolto: esercitare una rilevante pressione sulla Banca d’Italia e, attraverso di essa, sul Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, per indurlo a modificare il proprio orientamento in senso favorevole al Sindona.
Per le considerazioni che precedono, deve affermarsi che:
- il sen. Andreotti adottò reiteratamente iniziative idonee ad agevolare la realizzazione degli interessi del Sindona nel periodo successivo al 1973;
- tra tali iniziative, assunsero particolare rilevanza – anche se non conseguirono il risultato voluto - quelle aventi come destinatari finali i vertici della Banca d’Italia ed il Commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, i quali si opponevano ai progetti di “sistemazione”; va in particolare sottolineato che, se gli interessi del Sindona non prevalsero, ciò dipese, in larga misura, dal senso del dovere, dall’onestà e dal coraggio dell’avv. Ambrosoli, il quale fu ucciso, su mandato del Sindona, proprio a causa della sua ferma opposizione ai progetti di salvataggio elaborati dall’entourage del finanziere siciliano, a favore dei quali, invece, si mobilitarono il sen. Andreotti, taluni altri esponenti politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2;
- il significato essenziale dell’intervento spiegato dal sen. Andreotti (anche se non le specifiche modalità con le quali esso si era realizzato) era conosciuto dai referenti mafiosi del Sindona.
Va tuttavia osservato che le condotte poste in essere dal sen. Andreotti nei confronti del Sindona potrebbero integrare la fattispecie della partecipazione all’associazione di tipo mafioso soltanto qualora assumessero - per le loro caratteristiche intrinseche - significatività e concludenza in termini di affectio societatis, denotando l’adesione dell’imputato al sodalizio criminoso.
Nel caso di specie, è invece rimasto non sufficientemente provato che il sen. Andreotti, al momento in cui realizzò i suindicati comportamenti suscettibili di agevolare il Sindona, fosse consapevole della natura dei legami che univano il finanziere siciliano ad alcuni autorevoli esponenti dell’associazione mafiosa.
I comportamenti dell’imputato che apparivano concretamente idonei ex ante ad avvantaggiare il Sindona nel suo disegno di sottrarsi alle conseguenze delle proprie condotte illecite - come il conferimento informale al sen. Stammati ed all’on. Evangelisti degli incarichi riguardanti il secondo progetto di sistemazione - risalgono ad un periodo anteriore alla data (18 ottobre 1978) in cui lo stesso avv. Guzzi comprese che il proprio cliente intratteneva rapporti con ambienti mafiosi.
Non vi è prova certa che, al momento in cui tenne i predetti comportamenti, l’imputato fosse in possesso di informazioni tali da ingenerare in lui la consapevolezza che gli effetti del suo operato avrebbero potuto assumere una notevole importanza per gli esponenti mafiosi per conto dei quali il Sindona svolgeva attività di riciclaggio.
In particolare, non è stata fornita prova sufficiente che l’imputato fosse venuto a conoscenza del rapporto con il quale, in epoca anteriore al 1977, l’ambasciatore italiano a New York, Roberto Gaja, aveva rappresentato al Ministero degli Affari Esteri le ragioni per cui non aveva partecipato ad una celebrazione in onore del Sindona e non intendeva presenziare a nessun’altra manifestazione riguardante il finanziere siciliano, ritenendolo in contatto stretto con ambienti di natura mafiosa (cfr. sul punto la deposizione testimoniale dell’on. Teodori).
Ugualmente non vi è prova sufficiente che l’imputato abbia avuto consapevolezza dei sospetti emersi, anteriormente al 1974, sui collegamenti tra il Sindona ed ambienti mafiosi, sulla base delle indicazioni provenienti - secondo quanto ha riferito il teste Teodori - dal Narcotics Bureau degli Usa (che aveva inviato all’autorità di polizia italiana richieste di informazioni riguardanti il Sindona, segnalandone i rapporti con personaggi degli ambienti di “Cosa Nostra” americani, quali Daniel Porco, Ernest Gengarella e Ralph Vio, sospettati di coinvolgimento nel traffico di stupefacenti) e dal giornalista americano Jack Begon (il quale aveva curato una trasmissione sui rapporti fra il Sindona, la mafia e il traffico internazionale di stupefacenti, messa in onda su una rete di stazioni radiofoniche americane il 28 Luglio 1972, facendo riferimento a spostamenti di denaro fra Europa e Usa, pianificati dal vertice di “Cosa Nostra” in una riunione tenuta all'Hotel delle Palme di Palermo).
Per quanto attiene, poi, al periodo successivo alla data (23 febbraio 1979) in cui l’avv. Guzzi riferì all'on. Andreotti che vi erano state minacce nei confronti dell’avv. Ambrosoli e del dott. Cuccia, resta incerta la effettiva valenza causale degli interventi sollecitati al sen. Andreotti, o da lui promessi nelle conversazioni con altri soggetti. Non sono state, infatti, definite in termini sicuri le modalità delle “istruzioni” che l’imputato aveva comunicato all’avv. Guzzi di avere dato con riferimento alla sollecitazione ricevuta in ordine al problema delle indagini relative alla Franklin Bank.
È, inoltre, rimasto indeterminato il ruolo effettivamente assunto dal sen. Andreotti rispetto all’intervento asseritamente realizzato dalla Grattan nei confronti di un esponente del Dipartimento di Stato degli Usa. E gli elementi di convincimento raccolti non permettono di stabilire se l’interessamento mostrato dal sen. Andreotti abbia realmente influito sui tempi della procedura di estradizione.
Una approfondita conoscenza, da parte del sen. Andreotti, del collegamento del Sindona con lo schieramento mafioso “moderato” è sicuramente dimostrata dalle espressioni usate dall’imputato nell’incontro del 5 aprile 1982 con il gen. Dalla Chiesa. Infatti - come si è evidenziato in altra parte della presente sentenza - in questa occasione il sen. Andreotti fece riferimento all’omicidio di Pietro Inzerillo (ucciso il 15 gennaio 1982 a Mont Laurel nel New Jersey - Usa) ed allo stato in cui si trovava il suo cadavere (effettivamente rinvenuto con cinque dollari in bocca e un dollaro sui genitali, secondo un macabro rituale tendente ad accreditare la tesi che la vittima aveva sottratto denaro all'organizzazione ed era “un uomo da poco”: cfr. sul punto la sentenza emessa il 16 dicembre 1987 dalla Corte di Assise di Palermo nel c.d. Maxiprocesso), riconnettendo tale episodio alla vicenda di Michele Sindona (il quale in realtà aveva intrattenuto intensi rapporti con Salvatore Inzerillo, fratello di Pietro Inzerillo).
Si tratta, però, di una conversazione ampiamente successiva al periodo cui risalgono gli interventi realizzati dall’imputato in favore del Sindona.
È, quindi, ben possibile che i medesimi interventi siano stati motivati non da una partecipazione dell’imputato all’organizzazione criminale cui il Sindona era strettamente collegato, bensì da ragioni politiche (connesse, ad esempio, a finanziamenti erogati dal Sindona a vantaggio della Democrazia Cristiana), ovvero da pressioni esercitate sul sen. Andreotti da ambienti massonici facenti capo al Gelli.
In conclusione non può configurarsi la sussistenza dell’elemento soggettivo del concorso eventuale nel reato di cui all’art. 416 bis c.p., non essendovi prova sufficiente che il sen. Andreotti abbia agito con la coscienza e la volontà di apportare all’associazione di tipo mafioso un contributo causalmente rilevante per la conservazione o il rafforzamento della sua organizzazione.
Rimane, tuttavia, il fatto che l’imputato, anche nei periodi in cui rivestiva le cariche di Ministro e di Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, si adoperò, con le condotte ampiamente indicate, in favore del Sindona, nei cui confronti l’Autorità Giudiziaria italiana aveva emesso sin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per il reato di bancarotta fraudolenta.
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