- Fra mappe, carrarmatini e conduttori televisivi con in mano la bacchetta, il dibattito sull’attualità internazionale in Italia sembra essersi ridotto alla sua dimensione geopolitica.
- Ancorato alle presunte auto-evidenze di geografia e storia, il discorso geopolitico (pur ammettendolo raramente) carica di enfasi determinista il realismo politico, dirigendone lo sguardo verso scelte "all’altezza degli interessi in gioco”.
- Preoccupandosi poco o nulla della propria validazione teorica - il più delle volte liquidata come pedante accademismo - esso si presta eternamente a promuovere se stesso allertando il politico sulle conseguenze che avrà trascurare fattori che, se innescati, potrebbero spalancare le porte degli scenari peggiori.
Fra mappe, carrarmatini e conduttori televisivi con in mano la bacchetta, il dibattito sull’attualità internazionale in Italia sembra essersi ridotto alla sua dimensione geopolitica. L’onnipresente invocazione del “dato geopolitico” rende necessario un chiarimento circa le definizioni e le ipotesi di fondo proprie del pensiero geopolitico, evitando che venga assunto quale metro e misura d’ogni cosa, una sorta di legge di gravitazione della politica internazionale.
In assenza delle opportune esplicitazioni, il rischio è non riconoscere scenari e prospettive che cambiano, scenari dei quali – a ben guardare - il pensiero geopolitico è parte, non neutra misura.
Esso può essere visto come storico candidato al ruolo di ala ‘militarizzante’ del realismo nell’ambito delle politiche estere: quella che traduce il rischio in minaccia, legge i problemi in termini di controllo territoriale, di indistinguibilità della difesa dall’offesa, di azione unilaterale preventiva e di negoziato solo dopo il fatto compiuto.
Ma è anche la prospettiva che, identificando condotte più o meno premianti od obbligate a partire dal dato geografico, spesso finisce per cimentarsi con la grande strategia ed articolare visioni e dottrine relative al destino geopolitico per la nazione, salvo poi incappare in fragorosi o tragici scontri con la realtà.
Il momento Taranto
Cerchiamo un indizio nel panorama italiano. Il “palazzo del Governo” si affaccia oggi tetro e decisamente fuori scala sul Golfo di Taranto. Venne inaugurato da Mussolini nel 1934, sulle macerie del Teatro Politeama Alhambra, demolito per far spazio alla proiezione imperiale dell’Italia fascista, che teorizzava l’egemonia sul Mediterraneo attraverso il controllo del triangolo Taranto-Tobruk-Tripoli.
Saldo nella sua visione, Mussolini non colse, nell’attacco della Royal Navy alla flotta italiana a Tobruk, e nell’affondamento del cacciatorpediniere Espero, un segnale premonitore del disastro, ovvero di quella che diventerà poi nota come la "notte di Taranto”.
Quando l’11 novembre 1940 i britannici attaccano la flotta italiana nel porto di Taranto, causando perdite irreparabili, Mussolini stentò a rendersi conto che veniva meno ‘uno dei postulati strategici fondamentali su cui poteva fondarsi la nostra condotta delle operazioni’ – come chioserà poi la Supermarina.
Davanti a un momento-spartiacque che cambia la storia della guerra navale e ispirerà i giapponesi a Pearl Harbour, mentre il Corriere della Sera assicurava coerenza cognitiva titolando “Strage di apparecchi nemici durante un'incursione a Taranto”, Mussolini non batté ciglio o quasi: «Quasi sembra, in questi primi momenti, non averne valutata tutta la gravità», annotò Ciano, che si aspettava di trovare il Duce abbattuto.
Il paraocchi geopolitico?
Qualcuno ha sostenuto, in questi giorni, che i cinesi, avendo in mente Taiwan, guardano oggi alla guerra in Ucraina come i giapponesi guardarono al raid inglese a Taranto, ovvero cercando di capire quali sviluppi tecnologici e quali intuizioni strategiche si rivelino premianti.
Ricordando le corazzate italiane andate a picco allora, ci si è chiesto se la sorte dei tank russi trasformati in scatole di fiammiferi dalle armi anticarro, oppure il clamoroso affondamento dell’incrociatore Moskva, le cui difese antimissile sono state distratte da un drone, ci pongano oggi davanti a un Taranto-moment.
Una leadership con i paraocchi del proprio credo geopolitico (il Russkij Mir, la Novorossija), mentre i fatti mostrano in modo ormai inequivocabile la vulnerabilità di corazze ed armature. Ma se la Russia è da sempre parte e specchio dell’Europa, quanto del nostro dibattito è riflesso in questi eventi?
Siamo sul Mar Nero, davanti alle rovine delle fortezze genovesi, ma non propriamente le direttrici lungo le quali si è concentrato il dibattito sulla politica estera italiana nell’ultimo decennio, fortemente segnato dalle sfide e l’instabilità della regione mediterranea.
Anni di discussione sulla minaccia jihadista dal fronte Sud per trovarsi con l’opinione pubblica disorientata dal repentino ‘ritorno a Est’.
E così, anche per colmare questo spiazzamento, per farsi un’idea di cosa aspettarsi e cosa sorprendersi, il dibattito si nutre di rudimenti di geografia e mappe: ricicla schemi di repertorio, recuperati in un cimitero di metafore, analogie e paragoni.
L’analogia di Taranto ci suggerisce qualcosa della rilevanza che qui gli schemi cognitivi finiscono per avere nel coniare la nostra interpretazione dei fatti in cui siamo immersi, i quali non parlano da soli. La cornice di pensiero fornisce strumenti argomentativi al senso comune e al parere degli esperti sui media.
Geopolitica all’Italiana
L’uso continuo, quasi ossessivo, del termine ‘geopolitica’, nonché del frasario e delle immagini corrispondenti, colpiscono perché a ben guardare non è sempre chiaro a cosa ci si riferisce: se a una teoria della politica internazionale poggiante su indagine social-scientifica (per cui valgono i criteri di validazione invalsi, la pubblicazione di articoli peer-reviewed, ecc) oppure a un tipo distinto di pensiero-dottrina, un modo di vedere che si presenta con spiccate tendenze pop a riprodurre mappe mentali del mondo.
In questo contesto, l’esistenza o meno, in termini storici, se non di una scuola, quantomeno di un’autonoma visione geopolitica italiana diventa un tema tutt’altro che marginale.
Negli anni Novanta il generale Carlo Jean fissò il canone: l’Italia non ha mai avuto una tradizione geopolitica propria. In sostanza, Mussolini non seguì un vero e proprio approccio geopolitico, e semmai furono i geografi dell’epoca a fascistizzarsi.
In realtà – come ricostruiscono Emidio Diodato e Federico Niglia (L’Italia e la politica internazionale, 2019) prima di approdare alla "battaglia del Mediterraneo” che inizia a deragliare a Taranto, le idee di fondo del “destino sul mare” hanno avuto una lunga gestazione nel pensiero mussoliniano, accanto all’idea che la politica estera sia inevitabilmente condizionata dal dato immutabile della geografia, e che un popolo non sia veramente indipendente se non ha libero accesso agli oceani.
Tornando a Taranto, per esempio, l’idea di una guerra parallela condotta dagli italiani, che avrebbe portato Roma a incunearsi fra colonie francesi e britanniche in Nord Africa, si allacciava con la profonda convinzione mussoliniana di un protagonismo geopolitico italiano attraverso un destino navale, secondo la formula «dalla marcia su Roma alla marcia all’Oceano».
La geopolitica fascista puntava all’Euroafrica e agli sbocchi sugli oceani, mentre lasciava l’Europa e i fronti orientali a Hitler - un Hitler poco sedotto dall’idea. Come chiosavano gli intellettuali del tempo: «il Mediterraneo ai Mediterranei».
Questa direzione non venne imboccata senza resistenze: ancora nel 1937 il ministro dell’educazione Bottai cercò di vincere l’ostilità dei geografi italiani – restii considerare scientifica la geopolitica.
Nel 1939 nacque la rivista Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale, concepita nel segno dell’autarchia di pensiero, con innesti volontaristici nel sostegno alla conquista della centralità italiana nel grande spazio vitale mediterraneo.
Così, pochi mesi prima della Notte di Taranto, la rivista asseriva che la geopolitica sarebbe diventata «la base dottrinaria del fascismo».
A ben guardare non si trattava di uno schema inventato di sana pianta: tale base dottrinaria poggiava saldamente sull’idea di missione civilizzatrice e coloniale che, echeggiando la grandezza di Roma, già aveva trovato ampia circolazione nell’Italia liberale.
Insomma, nato da un pensiero che resta irretito dalla propria visione del mondo al punto da sottovalutare la propria debolezza bellica e le capacità dei paesi liberal-democratici, il disastro di Taranto finì per segnare la fine dell’ambizione a elaborare una dottrina capace di accompagnare l’Italia a conseguire il rango di grande potenza.
A fronte di questa parabola, negare oggi che sia esistita una storia della geopolitica in Italia, se da un lato consente uno sguardo meno condizionato, dall’altro non aiuta un dibattito che necessita rigore nell’esplicitare quali lenti guidano l’analisi della realtà.
Tra le mappe e la realtà
Come spiega Stefano Guzzini in un importante libro sulla crisi delle politiche estere dopo la fine della minaccia da Est che significativamente non è mai stato tradotto in Italia (The return of geopolitics in Europe?, 2013) il ragionamento geopolitico solitamente mobilita definizioni etno-culturali ed essenzialiste dei soggetti politici (privilegiando fra questi la nazione), evidenziandone i tratti immutabili, in contrasto con l’idea di identità come negoziato perpetuo, costruzione sociale ed opportunità che è abbracciata da altre prospettive teoriche.
La geopolitica classica si afferma in un momento storico preciso - l’inizio del XX secolo - in cui le nazioni sono pensate come organismi viventi, in un clima imbevuto di darwinismo sociale e idee maltusiane sulla pressione demografica quale molla per l’espansione territoriale.
Si tratta di un pensiero che si trova a suo agio con la mappatura palmo a palmo delle zone di controllo di sovranità, e molto meno con lo studio dei processi politici, delle formule ibride che animano la contemporaneità – si pensi al tema della sovranità oltre lo stato-nazione, o a quello dell’intersezionalità.
A nessuno è venuto in mente, oggi, di parlare di una regione che si estende fra Russia e Finlandia, la Karelia, della quale, se sappiamo poco o niente è perché è stata sempre trattata lontano da un immaginario di competizione geopolitica.
La dura realtà che pone limiti all’azione degli stati non esiste al di fuori di come la leggiamo. Si può dire che il padre del pensiero geopolitico in ambito anglosassone, Halford Mackinder, nel teorizzare l’importanza strategica della massa continentale la cui terra nera produce grano per il mondo - l’Ucraina appunto - aveva consapevolezza di come la tecnologia stesse sconvolgendo il valore strategico delle masse terrestri rispetto al mare.
Ma Mackinder, che aveva combattuto per contenere i bolscevichi, aveva sì esperienza di ferrovie e telegrafo, ma aveva scarsa familiarità con la realtà degli aerei, né tantomeno con i droni, o con i flussi dell’economia economia transplanetaria.
Nel 2014, dopo una lunga conversazione telefonica con il leader del Cremlino, Angela Merkel commentò che Putin aveva perso il contatto con la realtà.
Ancorato alle presunte auto-evidenze di geografia e storia, il discorso geopolitico (pur ammettendolo raramente) carica di enfasi determinista il realismo politico, dirigendone lo sguardo verso scelte "all’altezza degli interessi in gioco”.
Preoccupandosi poco o nulla della propria validazione teorica - il più delle volte liquidata come pedante accademismo - esso si presta eternamente a promuovere se stesso allertando il politico sulle conseguenze che avrà trascurare fattori che, se innescati, potrebbero spalancare le porte degli scenari peggiori.
Il rischio di partire da un malinteso rapporto fra teoria e pratica, per una nascente foreign policy community, è una riduzione dell’orizzonte e dello sguardo alle possibilità consentite da un solo linguaggio.
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