Nel 2024, per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti spenderanno di più per pagare gli interessi sul proprio debito pubblico che per finanziare la propria difesa.

Non è un buon segno poiché, quando ciò si verifica, la storia ci mostra che gli imperi tendono ad entrare in una fase introversa dove le lotte interne prevalgono sull’interesse a garantirne un ordine internazionale. Chiunque vinca martedì prossimo è molto probabile che questa tendenza della politica americana resti invariata.

È vero che l’economia americana cresce ancora con vigore ma è altrettanto vero che questo sviluppo è stato dopato negli ultimi anni da una enorme spesa governativa che non potrà durare per sempre. Ciò significa che la prossima amministrazione americana avrà molto da fare sul piano domestico: il problema dell’immigrazione, la strage degli oppioidi, il controllo di spesa, debito e inflazione, la riconversione del sistema produttivo ed energetico su base protezionistica.

Senza considerare che la fiducia degli americani nelle proprie istituzioni politiche ed educative è ai minimi storici, mentre i due partiti esprimono posizioni radicali e quasi sempre inconciliabili. Sono fatti che spingeranno la classe dirigente a concentrarsi molto sul fronte interno.

Tutto questo sfocerà sul piano internazionale in due probabili conseguenze, più pronunciate nel caso di vittoria di Trump ma presenti anche nel caso di affermazione di Harris. Da un lato ci sarà una crescita ulteriore delle politiche protezioniste che isoleranno maggiormente il mercato americano e dall’altro è pronosticabile un minore interventismo di Washington nelle questioni internazionali che non vengono reputate come esiziali per gli interessi americani.

Ciò pone una serie di problemi per le classi politiche europee visto che è di fatto impossibile contare su alleanze più solide di quella con gli Stati Uniti, la Russia è oramai una autocrazia aggressiva con cui sono stati tagliati i legami economici ed energetici mentre la Cina può conquistare alcuni settori in cui gli europei non riescono più a competere come nel caso dell’auto elettrica e del solare. In ogni caso, per le nazioni europee si tratta di giochi a somma negativa.

A questo scenario si aggiunge una economia europea stagnante, con l’industria in recessione, un green deal azzoppato dalla realtà, un patto di stabilità riformato che sembra comunque inadeguato a fronteggiare uno scenario economico internazionale stravolto dopo la pandemia. Ma ciò che forse è peggio è l’incapacità dei paesi europei di provvedere da soli alla propria sicurezza.

Benché molto si sia discusso di autonomia strategica europea, essa è ben al di là da venire sia in campo industriale che militare. In questo quadro è impensabile per l’Unione europea rimanere inerte se non al prezzo di un indebolimento di tutti i governi e delle economie.

Senza grandi teorie o riforme politiche irrealistiche, l’unica iniziativa non può essere che un sistema comune per il rilancio degli investimenti, soprattutto nei settori chiave. Una integrazione selettiva, limitata, ma che sfrutti il modello del Pnrr.

E qui si arriva al governo italiano che nei prossimi mesi non potrà più permettersi di concentrarsi soltanto sull’immigrazione o di agire esclusivamente da stopper verso le riforme dell’Unione europea. Meloni, che è a capo di uno dei governi più stabili e forti, dovrebbe smettere di giocare solo in difesa a causa del suo passato euroscetticismo e darsi da fare di più sugli investimenti comuni portando una visione italiana che aiuti superare l’impasse europeo su difesa ed economia.

In questo caso interesse nazionale e interesse europeo si sovrappongono e non si scontrano. L’alternativa è scivolare in un mosaico di nazionalismi e protezionismi in cui ognuno fa da sé, ma ognuno arretra e perde terreno rendendo il continente meno prospero e sicuro.

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