Al consiglio federale della Lega, il più difficile in cui analizzare il crollo del partito al 9 per cento, era presente anche Umberto Bossi in persona. La sua mancata elezione come primo in lista al proporzionale nel collegio alla Camera di Varese è la rappresentazione plastica della sconfitta del progetto leghista costruito intorno alla figura di Matteo Salvini: è un po’ la fine di un’epoca e forse il capolinea per il Capitano, ora sempre più in difficoltà.

A poco vale la proposta del segretario di impegnarsi a farlo diventare senatore a vita, «dopo che nel 2019 ne aveva chiesto pubblicamente l’abolizione», sottolineano ironicamente nelle chat alcuni dirigenti lombardi. Dopo 35 anni il fondatore della Lega non sarà in parlamento e il partito è in piena crisi di nervi ad analizzare come si sia arrivati a scendere sotto la soglia psicologica del 10 per cento, storico risultato ottenuto proprio da Bossi nel 1996 con la Lega candidata solo in quattro regioni. Ma soprattutto perché il nord abbia tradito, consegnando alla Lega il peggior risultato di sempre e l’onta del doppiaggio di Fratelli d’Italia nelle regioni che sono state la culla del leghismo.

Nel corso del lungo consiglio federale, durato più di tre ore, Bossi non è stato tenero né con Salvini né con gli altri dirigenti. «Li ha bacchettati tutti. Il Senatur era molto arrabbiato», dice un’autorevole fonte interna. Proprio questa è stata l’unica vera fiammata della riunione, che però non ha deciso alcunché. I segretari regionali, i dirigenti e lo stato maggiore riunito nella storia sede di via Bellerio a Milano hanno preferito prendere tempo per valutare il da farsi sul futuro della Lega. Una delle certezze è che durante la riunione è emersa più volte la questione autonomia delle regioni, considerata la grande assente della campagna elettorale condotta dal Capitano. Proprio questa rimostranza ha dato la dimensione della spaccatura interna, in una Lega sempre più divisa tra i nordisti delle origini e i nazionalisti fedeli all’attuale leader.

Una nota ufficiale, tuttavia, ha provato a ridurre il malcontento interno parlando di «rammarico per la percentuale raggiunta», che è stata spiegata con la convivenza forzata con Pd e Cinque stelle nel governo Draghi, ma «la Lega sarà parte fondamentale» del nuovo governo. Addirittura, al termine del consiglio federale, Riccardo Molinari ha detto che «la Lega chiede che Salvini abbia un ministero di peso nel prossimo governo». 

Il silenzio

Anche se si cerca di far filtrare voci di «clima sereno», il fronte nordista ribolle. Ha chiare le responsabilità di Salvini: gestione personalistica del partito e tradimento della causa federalista. Nessuna di queste accuse, tuttavia, è potuta finire al centro del dibattito perché alla riunione straordinaria la composizione mista è evidente. Negli anni di gestione salviniana, infatti, il segretario ha piazzato commissari di sua fiducia ovunque (che siedono di diritto in consiglio federale), uccidendo la democrazia interna.

Inoltre, il leader può ancora contare sia sul silenzio ufficiale dei generali più in vista – da Luca Zaia a Massimiliano Fedriga – che sull’appoggio esplicito di Attilio Fontana. Il presidente della regione Lombardia ha escluso qualsiasi passo indietro del segretario o rischi per la sua segreteria, ma la sua posizione viene considerata interessata. La sua ricandidatura, infatti, è sempre più in bilico visto il risultato deludente alle politiche in regione: Salvini lo ha riconfermato anche nell’ultima conferenza stampa e a Fontana serve ogni aiuto possibile per allontanare l’ombra di Letizia Moratti, ancora in attesa e in ottimi rapporti con Giorgia Meloni.

Le parole

Tuttavia, a lanciare la carica contro il segretario ci ha pensato il suo predecessore alla guida della Lega, Roberto Maroni, che dalla sua rubrica sul Foglio ha scritto che «serve un nuovo segretario» e che «si parla di un congresso straordinario. Ci vuole. Io saprei chi eleggere come guida, ma per adesso non faccio nomi». Prima di lui, anche il suo compagno di mille battaglie nei governi Berlusconi, Roberto Castelli, ha detto che «I leghisti del nord non vogliono più Salvini».

Un’analisi del voto spietata l’ha fatta anche Roberto Mura, ancora interno alla Lega e consigliere regionale di maggioranza in regione Lombardia: «La Lega è diventata un partito dove non ci sono più i congressi, le occasioni di confronto e tutte le decisioni vengono calate dall’alto» e «dove ormai la fanno da padrone i leccaculo, gli amici, gli amici degli amici, le fidanzate», ha scritto su Facebook.

Non solo. Continuano a girare anche le prime raccolte firme contro la gestione di Salvini e per la convocazione immediata dei congressi regionali e contro la linea sovranista è nato anche il primo organo di stampa che si rifà alle origini, la Nuova Padania, diretta da Stefania Piazzo, una vita in Lega e già direttrice delle testate del vecchio partito.

Voce autorevole, dunque, che a poche ore dall’inizio del consiglio federale sul sito della testata ha chiuso il suo editoriale con queste parole: «Nel frattempo che succederà, dopo che ha fatto terra bruciata dell’opposizione interna? E l’opposizione interna, ma anche esterna, considerando quello che ha rottamato o che si è allontanato da tempo dal suo Titanic, che farà? Una cosa può essere certa e cioè che qualsiasi cosa possa arrivare per ridare voce e rappresentanza al Nord non arriverà, non nascerà da via Bellerio».

L’analisi conferma la notizia pubblicata nei giorni scorsi da Domani. Sono in corso, cioè, riunioni carbonare per fissare la data nelle prossime settimane di un’assemblea in Lombardia (forse in Brianza) per la nascita di una “cosa verde” nuova, una Lega dell’autonomia, per intenderci. Il ritorno alle origini dopo l’esperimento nazionalista di estrema destra firmato Salvini.

 

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