Con la rottura dell’alleanza con il Pd e la nascita, possibile, di quella con Renzi, Azione regala a Lega, FI e FdI la possibilità di ambire al 46 per cento dei voti, al 61 per cento dei seggi alla Camera e al 64 per cento al Senato
Dopo i giri di valzer dei giorni scorsi, e la rottura apparentemente definitiva tra Azione e Pd, all’istituto Cattaneo abbiamo deciso di aggiornare le stime pubblicate il 27 luglio, assumendo che Carlo Calenda e Matteo Renzi riescano ad accordarsi per presentare una lista comune, indipendente dai principali schieramenti.
Al momento, questa sembra l’unica possibilità, benché, a dirla tutta, le premesse non consentano di avere alcuna certezza per gli sviluppi futuri. Calenda non può presentare liste da solo senza raccogliere le firme richieste dalla legge sul procedimento elettorale, perché la peculiare alleanza che siglò con il Pd per le europee (quando, parole sue, «era ancora iscritto al Pd e Siamo europei non era un partito») non ebbe nessuna declinazione giuridica in sede di presentazione delle candidature.
D’altro canto, è pressoché impossibile che Azione riesca a raccogliere 30.000 firme certificate tra il 13 e il 22 di agosto. Dunque, nel negoziato con Renzi, Calenda parte più debole di una settimana fa. Anche a essere ottimisti, i seggi potenzialmente oggetto del negoziato tra i due leader non sono molti di più di quelli stimati dall’analisi del Cattaneo, che prende per buone le medie dei sondaggi già pubblicati e assume che a oggi, insieme, ma senza +Europa, potrebbero ambire al 6 per cento.
A chi i seggi?
Peraltro, date le caratteristiche del sistema elettorale e l’assenza di indizi solidi sulla distribuzione territoriale di questi consensi, non si può prevedere a chi andranno i seggi in questione. A meno che non vengano messi in cima a tutte le liste le stesse 20 persone, nessuno può prevedere a quale dei 49 capilista nei collegi plurinominali della Camera andranno i 17-20 seggi a cui possono oggi ambire e a quali tra i 16 capilista dei collegi plurinominali delle grandi regioni potrebbero andare i 7-10 seggi a cui possono ragionevolmente aspirare per il Senato.
Sarà un poco più facile trovare tra loro un accordo se sono proprio convinti di poter fare molto meglio. Renzi forse confida di potere riattivare, nel corso della campagna, i sentimenti positivi e l’entusiasmo che aveva ispirato nella prima fase della sua segreteria rivolgendosi soprattutto a elettori Pd che presume meno persuasi da Enrico Letta (come a quei tempi).
Calenda si dichiara fiducioso di «svuotare Forza Italia». Se riuscissero in uno e/o nell’altro obiettivo potrebbero superare, ma non di tanto, il 10 per cento. Poi tutto può succedere, ma non sembra proprio abbiano le chiavi per ribaltare nella sostanza il risultato finale.
Modificare la Costituzione
Per il momento la cosa certa è che, scomputando quel 6 per cento dalla base elettorale del centrosinistra (Cs), quest’ultimo riparte (in base ai sondaggi) da una dote del 30 per cento dei voti a fronte del 46 per cento del centrodestra (Cd). Senza quel 6 per cento slittano verso il Cd 19 collegi uninominali della Camera e 9 del Senato. Cosicché, ai nastri di partenza, il Cd può plausibilmente ambire al 61 per cento dei seggi complessivi nel primo ramo del parlamento e al 64 per cento nel secondo.
Diventa quindi ragionevole pensare che il Cd potrebbe alla fine addirittura ottenere quella maggioranza dei 2/3 per approvare da solo riforme della Costituzione destinate a entrare in vigore senza nemmeno passare per il referendum popolare.
In realtà, questo scenario appare molto improbabile. È difficile immaginare che il Cd prenda più del 46-47 per cento dei voti e più di 120-122 seggi in quota proporzionale alla Camera, più di 62-64 seggi in quota proporzionale al Senato. Per arrivare ai due terzi da tutte e due le parti dovrebbe conquistare altri 6 collegi uninominali del Senato (tra i 9 che sembrano ancora buoni per il Cs) e, soprattutto, 20 collegi in più alla Camera (tra i 23 ancora buoni per il Cs).
In pratica, il Cs dovrebbe perdere pure nei tre i collegi del centro di Milano, in tutti i collegi di Napoli e Roma centro, a Imola, Ravenna, Carpi, Reggio Emilia, Modena (in tutti questi posti), conservando forse, a quel punto, solo Firenze, Bologna e Scandicci. Uno scenario che i leader del Cs potrebbero evocare se ritengono che la motivazione più importante e più utile su cui fare leva sia la paura di una vittoria debordante della destra. Ma è chiaro che la distanza tra questo scenario e lo scenario positivo di una possibile rimonta è tale per cui l’uno, anche agli occhi degli elettori, finisce per escludere l’altro.
© Riproduzione riservata