Altro che «tregua olimpica»: quella di Emmanuel Macron è una guerra di logoramento. Dopo aver rinnegato la vittoria del Front populaire alle elezioni legislative, il presidente francese ha pure ignorato il nome di Lucie Castets avanzato dal Fronte per l’incarico di premier.

La fase protratta di negazioni e attese, l’ultima delle quali è giustificata con la concomitanza delle Olimpiadi parigine, altro non è che l’ennesima tattica con la quale l’Eliseo pensa di poter manipolare a piacimento i quadranti della politica francese fino a che il cubo di Rubik mostrerà il risultato da lui auspicato.

Peccato che Macron abbia sottovalutato la consapevolezza degli altri partecipanti. Olivier Faure – il leader del Parti socialiste che il presidente spera di sganciare dalla France insoumise – si è rivolto al Consiglio di stato. Il gesto non è legalistico – anche se può sembrarlo – ma politico.

Abuso di pazienza

C’è soprattutto un passaggio che pesa, nella lettera divulgata da Faure sui social mercoledì sera: l’accusa ai macroniani di «abus de pouvoir». Non potrà sfuggire all’Eliseo che il segretario dei socialisti – cioè del partito erede della force tranquille mitterrandiana, la componente ritenuta più moderata e dialogante in tutta la sinistra del Fronte – si rivolti in punto di diritto mettendo nero su bianco quelle tre parole: «abuso di potere».

Faure non si limita a respingere la «tregua olimpica» macroniana, ma fa di più: la smaschera. La sua lettera è rivolta formalmente al vicepresidente del Consiglio di stato, con «sentimenti repubblicani», ma è destinata direttamente all’opinione pubblica francese e indirettamente all’Eliseo.

Macron ha «annunciato nel suo intervento tv del 23 luglio la sua intenzione di non designare un primo ministro durante i Giochi olimpici. Il governo di Attal è stato riconosciuto come dimissionario e deve gestire unicamente gli affari correnti». La situazione – scrive Faure – «appare inedita e ai nostri occhi estremamente problematica: nessun governo ha mai dovuto gestire così a lungo gli affari correnti». Il protrarsi di una situazione transitoria pone già una serie di problemi.

Faure cita anzitutto la «recente serie di nomine in ruoli direttivi dell’amministrazione con date di insediamento diverse». Tra il primo e il secondo turno delle legislative è scoppiato un caso per la scelta macroniana di procedere con un ciclo di nomine effettive dopo il voto; Marine Le Pen aveva parlato di «colpo di stato amministrativo».

La seconda questione sollevata dal segretario socialista è di fondo: un governo in carica per affari correnti dovrebbe limitarsi al minimo necessario, da garantire con strumenti come la decretazione d’urgenza (gli «actes réglementaires» citati da Faure). Ma cosa succede quando resta in carica troppo a lungo? Faure chiama in causa il Consiglio di stato proprio perché si prefigura un rischio simile a quello già visto con il protrarsi eccessivo dello «stato di urgenza»: i poteri inizialmente previsti per una situazione strettamente limitata ed eccezionale vengono in realtà usati in modo protratto e ingiustificato.

«Mi rivolgerò al Consiglio di stato per tutti quegli atti che, travalicando palesemente la pura gestione degli affari correnti, costituiranno un abuso di potere», avvisa il leader. Si rivolge all’istituzione guardiana, ma soprattutto lancia un monito a Macron, oltre che per abuso di potere, per abuso di pazienza.

Macron solo al comando

Il presidente insiste nel suo rifiuto di incaricare un nuovo primo ministro, e in questi giorni presenta la sua scelta come una «tregua olimpica». Non è concordata, ma imposta: Macron ignora la proposta di nome avanzata dalla forza politica più votata, e parte dal presupposto falso che il Front populaire non sia neppure la forza più votata.

Nella lettera del 10 luglio ai francesi, afferma che «nessuno ha vinto», e non si riferisce solo al fatto che nessun blocco da solo abbia raggiunto la maggioranza assoluta: sostiene pure che «tutti i blocchi sono in minoranza», rinnegando che il Front abbia più seggi. Nell’intervento tv di martedì, quando i cronisti lo incalzano – «sì, ma c’è un partito più votato» – lui risponde: «È il Rassemblement national». Preferisce dare primazia a Le Pen piuttosto che riconoscere al Front autonomia di interlocuzione. Dopo aver imposto (pure ad Attal) lo scioglimento del parlamento, ora Macron impone lo stallo (salvo spacciarlo per tregua), e cala lui dall’alto le condizioni per uscirne: «Lascerò tempo perché le forze politiche battezzino un compromesso». Devono «trovare una maggioranza parlamentare», impresa che neppure a lui era riuscita nel 2022: prima Borne e poi Attal avevano governato senza maggioranza assoluta.

La sua condizione per uscire dallo stallo presuppone una scomposizione del Front e la ricomposizione di una parte di esso assieme ai macroniani; ecco perché la tregua è in realtà guerra di logoramento per sgretolare il fronte a sinistra. Dunque la lettera di Faure pesa, perché segnala una capacità di reazione dei socialisti, che in quanto ala più moderata costituiscono il primo obiettivo dei calcoli macroniani. Non a caso fino a qualche giorno fa sia gli Insoumis che gli ecologisti avevano attribuito ai socialisti la responsabilità dello stallo sul nome del premier. Ma poi un accordo è stato trovato, su Castets, profilo strategico: da una parte a sinistra perché difensora dei servizi pubblici, dall’altra versatile perché funzionaria non associata a un’etichetta di partito. Ma ancora una volta Macron ha ignorato il campo a sinistra: in questa guerra è comandante in capo, ed è solo al comando.

© Riproduzione riservata