- «Il perimetro della nostra libertà è segnato dal livello di potere che saremo in grado di conquistare», parole di Viktor Orbán. L’ossessione per il potere è da sempre la sua cifra, e il gioco del calcio ne è la metafora. Anche in campo, il premier ha smania di vittoria ed è disposto a riscrivere le regole.
- «Se mai Orbán ha sognato di far qualcosa di diverso dal politico, è diventare una specie di José Mourinho», dice Daniel Nolan, ricordando il suo faccia a faccia con il premier nella lussuosa “sky box” della Pancho Arena. La costruzione di questo stadio, che affaccia sulla casa di Orbán, è un esempio di come la sua ossessione per il calcio sia indistinguibilmente privata e politica.
- Orbán ha politicizzato il calcio, sia dal lato ideologico, con l’aspirazione alla gloria della nazione, che pragmatico: il pallone è uno dei tanti ambiti che il premier controlla, gestisce e sfrutta anche con la leva economica. «Per gli stadi, i soldi ci sono sempre. Anzi, sempre di più. A noi invece li toglie». Kata Tutto è la vicesindaca di Budapest, la capitale sia dell’Ungheria che dell’opposizione a Viktor Orbán. Racconta come il premier sta legando le mani alla città.
«Il calcio, il calcio. Quella è la sua ossessione. Costruisce stadi pure dietro casa sua. Per gli stadi, i soldi ci sono sempre. Anzi, sempre di più. A noi invece li toglie». Kata Tutto è la vicesindaca di Budapest, la capitale sia dell’Ungheria che dell’opposizione a Viktor Orbán. Ha una cascata di riccioli e neppure un pezzo di carta sotto mano, per raccontare in che modo il premier ungherese prova da tempo a stroncare ogni margine di indipendenza al governo cittadino. Ricorda tutto a memoria. Attorno a questo tavolo di vetro, nel palazzo del municipio in Városház Utca, ha provato più volte a fare progetti, verdi, europei, e a negoziarli. Ma niente da fare: il premier «ci ha legato le mani, non possiamo neppure chiedere prestiti».
Il pallone e il potere
«Il perimetro della nostra libertà è segnato dal livello di potere che saremo in grado di conquistare». Così parlava Orbán nel 1990: all’epoca era considerato un giovane liberale, ma l’ossessione per il potere era la sua cifra ieri come oggi. Il gioco del calcio non è che la metafora di tutto questo, o almeno così si deduce ascoltando Daniel Nolan. «Tutte le persone con le quali abbiamo parlato, e che fanno parte della cerchia del premier, sono concordi nel dire che Orbán è un sincero fanatico del calcio, che mentre corre in campo è assolutamente perso nel gioco, come un bambino. Ma è anche determinato, aggressivo, pronto a cambiare le regole come dice lui». Nel calcio, come in politica.
Nel 2018 Nolan, assieme a David Goldblatt, è arrivato finalista allo European Press Prize grazie al reportage-intervista sull’ossessione calcistica di Orbán. La sua indagine lo ha portato ad almeno due conclusioni. La prima è che questa ossessione «rivela la personalità del premier». Negli anni Ottanta, da giovane studente di giurisprudenza, Orbán giocava con quelle che poi sarebbero diventate le figure chiave della politica ungherese, e cercava in ogni modo di averla vinta. «Più per volontà che per capacità» è arrivato anche al calcio semiprofessionale, ed è stato nel FC Felcsút. «Chi era in campo con lui dice che prende “un gioco non serio troppo sul serio”». L’altra conclusione è la diretta conseguenza di tutto questo: «Se mai il premier ungherese ha sognato di far qualcosa di diverso dal capo di governo, e dal politico, allora quel sogno è diventare una specie di José Mourinho».
Seduto in un pub di Margit körút, Nolan ironizza sul fatto che una delle poche speranze di un cambio di regime in Ungheria possa essere riposta in un pallone.
Lo stadio dietro casa
Nel 2017 Dan Nolan si trova dentro la Pancho Arena, lo stadio costruito, manco a dirlo, durante il governo Orbán, e aspetta di incontrare il premier per l’intervista. Non gli pare vero di poter finalmente fare domande a tu per tu, perciò si sottopone a una rigida liturgia di silenzi e attese. «Finalmente, mi ritrovo in un ascensore, e poi dritto dentro la sky box, dove si trova il premier».
La sky box è un luogo esclusivo dove guardare la partita in riservatezza, e nel caso specifico – Nolan fa mente locale sui dettagli – «ricordo lo staff vestito di nero, elegante, il cibo attraente, la macchina per il caffè espresso, insomma il lusso». Ma è salendo nel punto più alto dello stadio che ci si rende davvero conto dell’imponenza: la Pancho Arena affaccia sulla casa di Orbán, ed è la cattedrale nel deserto di Felcsút, villaggio rurale che non arriva a duemila abitanti. «La maestosità di questo stadio è così spropositata che ciascun abitante di Felcsút ha due posti a disposizione», dice Nolan. Intende che la capienza è doppia rispetto alla popolazione.
Famiglia, patria e denaro
Quando la vicesindaca di Budapest, Kata Tutto, lamenta che «Orbán pensa solo a costruire stadi», che «durante la pandemia una sola cosa ha avuto più fondi e cioè l’industria del calcio», e che «il premier si è fatto costruire uno stadio pure dietro casa», l’ultimo riferimento è proprio alla Pancho Arena. Felcsút è il villaggio dell’infanzia di Orbán, e lo stadio affaccia sui suoi possedimenti. «Mia moglie detesta lo stadio, dice che rovina la vista dalla finestra della cucina»: sono parole del premier.
La costruzione di questa arena è solo un esempio del fatto che l’ossessione di Viktor Orbán per il calcio è indistinguibilmente privata e politica. Orbán ha politicizzato il calcio, e lo notano da tempo storici come Stefano Bottoni, autore di Orbán. Un despota in Europa: «Durante l’adolescenza Orbán assiste all’inarrestabile declino della grande scuola calcistica ungherese. Per lui, il calcio è molto piú di uno sport e di un passatempo collettivo: è un atto politico in quanto incarna la metafora dell’Ungheria che attende il ritorno alla gloria». La patina nazionalista avvolge la retorica orbaniana, e un esempio su scala europea si è visto un anno fa: durante gli europei, il premier ha detto che «un ungherese si inginocchia solo davanti a Dio, al proprio paese o alla fidanzata», ripudiando con questo argomento ogni gesto antirazzista.
La politicizzazione del calcio comprende, come in ogni ambito della politica orbaniana, sia l’involucro ideologico che la sostanza pragmatica. Il pallone e la sua industria sono uno dei tanti ambiti che il premier controlla, gestisce e sfrutta anche con la leva economica. È il sistema-Orbán, con tutti i suoi tratti tipici: anzitutto, il settore è in mano al cerchio magico del premier. In quest’ambito ha investito, ad esempio, l’oligarca Lőrinc Mészáros, amico di Orbán sin dall’infanzia e uomo tra i più ricchi d’Ungheria (le due cose sono connesse tra loro, e le ricchezze di Mészáros sono dovute anche all’uso che il governo ungherese ha fatto dei fondi europei). Mészáros era sindaco di Felcsút quando la Pancho Arena è stata costruita, ha seguito il dossier; impossibile scindere politica, economia e faccenda calcistica. Il premier trova escamotage per far arrivare soldi pubblici ai suoi accoliti, i quali poi ricambiano il favore (come ha fatto la famiglia Mészáros subappaltando commesse alla famiglia Orbán).
L’opposizione e Budapest
La combinazione tra calcio, affarismo e politica ha suscitato moti di indignazione: ci sono state proteste sotto la tenuta di Orbán quando è stata costruita la Pancho Arena. Il movimento che nel 2017 si è opposto – con successo – alla candidatura olimpica di Budapest per i giochi estivi 2024 è alla base della nascita di Momentum, partito liberale di opposizione.
Ma il sistema orbaniano è troppo radicato e pervasivo: grazie al programma decennale “Tao”, dal 2011 alla fine del 2021, i club e le federazioni calcistiche ungheresi hanno ricevuto due miliardi e mezzo di euro di soldi dei contribuenti, come hanno ricostruito Dániel Bita e Péter Pető. Prima beneficiaria è la Puskás Akadémia di Felcsút, squadra sulla quale Orbán ha puntato tutto (soldi inclusi) tanto da farle guadagnare nel 2020 la qualificazione in Europa League.
Sorte opposta tocca alla capitale: tanto Orbán ama il calcio, quanto prova in ogni modo a mettere i bastoni tra le ruote ai suoi avversari. E dal 2019 Budapest è governata da Gergely Karácsony, verde, liberale, europeista, figura cardine dell’opposizione ungherese. A marzo 2021, dalle colonne di Domani, Karácsony aveva denunciato che «Orbán mente e ci esclude dai fondi Ue». La primavera seguente, dopo che il premier è stato rieletto con una maggioranza ancor più ampia, in municipio la preoccupazione è aumentata.
La vicesindaca Kata Tutto ricostruisce le pratiche ritorsive attuate finora dal governo verso la capitale. «Dopo il 2010, sempre più competenze sono state spostate dagli enti locali al governo centrale. Con la pandemia, l’esecutivo ha iniziato pure a scipparci le tasse che prima arrivavano alle autorità municipali. Ci resta solo la business tax locale, ma Fidesz ha iniziato a prendere pure una quota di questi introiti: prima ci prelevavano il 10 per cento, ora il 35. In tutto questo noi dobbiamo gestire, con le nostre risorse locali, la mobilità per tre milioni di persone». Il municipio deve garantire servizi pubblici i cui costi aumentano, mentre gli introiti diminuiscono, spiega Tutto.
Non si tratta di dinamiche che colpiscono in modo omogeneo tutti gli enti locali: «Ad alcuni fra questi, Fidesz ha fatto il “regalo di Natale” redistribuendo risorse; ma non a noi, che siamo all’opposizione». Karácsony, da verde qual è, ha molti progetti green per la capitale, e sembrano fatti apposta per Next Generation Eu. Eppure «la scorsa estate quando abbiamo negoziato col governo i progetti avevamo preparato tutto, ma l’esecutivo Orbán ha fatto carta straccia delle nostre idee. Abbiamo quindi pensato di chiedere prestiti; ma serve l’ok del governo, e ci blocca». Mentre Tutto pensa a «piani per l’efficientamento energetico, il premier pensa a costruire stadi».
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