Gli indipendentisti catalani festeggiano l’approvazione in Congresso, ma i popolari promettono di dare battaglia in Senato. Intanto le elezioni catalane anticipate e i contrasti tra formazioni creano instabilità nel governo a trazione socialista
Può sembrare una questione del tutto locale: c’è l’amnistia per gli indipendentisti, approvata questo giovedì al Congresso; ci sono le elezioni anticipate in Catalogna, o una legge finanziaria col fiato più corto di quel che si pensava. Ma il garbuglio catalano è molto di più.
Per Pedro Sánchez, restare in equilibrio con le formazioni indipendentiste significa garantire sopravvivenza politica al proprio governo: senza quel pugno di seggi vacillerebbe. Per l’Europa, la stabilità del governo socialista spagnolo – ora che la destra va a espugnare la roccaforte portoghese incrinando tutto il bastione socialista iberico – rappresenta il minimo atto di resistenza all’onda nera. Non è che la Germania del cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz sia poi così in forma: non è solo la sua leadership europea a essere evanescente, ma pure la capacità di tenuta in patria, tra screzi di coalizione e Afd in ascesa.
Insomma Sánchez, che finora ha mostrato una certa abilità tattica, confermata con la scelta di elezioni anticipate, deve ora attraversare una corsa elettorale a ostacoli: superato il voto parlamentare sull’amnistia, la gincana prevede le elezioni regionali nei Paesi Baschi il 21 aprile, poi il 12 maggio il voto catalano, e in tutto ciò bisogna mantenere il fiato per le europee di giugno, nelle quali i socialisti europei devono scongiurare perdite eccessive. In tutto questo le destre sono sempre più arrembanti.
Prima tappa: l’amnistia
Il governo Sánchez ha mosso un piccolo passo in avanti questo giovedì, riuscendo a mettere a segno alla Camera dei deputati la proposta di legge sull’amnistia. Da questo dossier dipende la sopravvivenza dell’esecutivo, visto che la maggioranza è garantita non solo dalla solida alleanza con la sinistra di Sumar, ma anche dalla galassia del Partito nazionalista basco, di Bildu, di Junts per Catalunya (la formazione guidata da Carles Puigdemont), di Erc (la Sinistra repubblicana di Catalogna) e Bng. Per tenere tutte queste formazioni ancorate al perno socialista, non sarebbe ovviamente bastata la mossa di introdurre il catalano, il basco e il galiziano come lingue coufficiali. Il vero nodo per il compromesso – e per un via libera di Puigdemont – era un altro: l’amnistia.
Qualche mese fa, Carles Puigdemont ha persino lasciato intendere a Manfred Weber, il leader dei popolari europei, che lui può far traballare il governo da un momento all’altro; il messaggio in realtà era rivolto a Sánchez. Da quando i seggi di Junts sono diventati cruciali, gli indipendentisti spingono le proprie richieste il più possibile. Tuttavia il nodo dell’amnistia resta ingarbugliato. Lo è stato finora, con una prima bocciatura di un’altra versione della proposta di legge, bocciata il 30 gennaio per l’opposizione degli indipendentisti stessi di Junts. Questo giovedì la nuova versione è passata, sì, ma con 178 voti a favore e 172 contrari, tra i quali i popolari e l’estrema destra di Vox. E il nodo resterà ingarbugliato anche dopo.
Ci sarà l’ostico passaggio in Senato, dove i rapporti di forza sono diversi: qui non solo il Partido Popular ha la maggioranza assoluta, ma ha cominciato il 2024 rinfrescando i servizi giuridici d’aula. I popolari intendono ora praticare un ostruzionismo serrato, a colpi di pareri legali e controversie varie, rallentando così l’iter per mesi. Più in generale, la battaglia giudiziaria e politica che la destra intende portare avanti su questo tema sarà tutt’altro che sopita.
C’è da scommettere che anche la campagna elettorale per le europee ne risentirà, visto che già da mesi i popolari europei e il loro leader, Manfred Weber, vanno all’attacco congiunto con il loro membro spagnolo e sostengono che l’accordo fra il premier socialista e gli indipendentisti sia «un attacco allo stato di diritto».
Seconda tappa: le elezioni
Ma non ci sono soltanto gli attacchi degli avversari destrorsi, a mettere sotto stress la maggioranza di governo. I rapporti sono spinosi anche soltanto tra formazioni indipendentiste catalane – Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) e la formazione di Puigdemont sono rivali fra loro – e inoltre ci si strattona anche fra Junts e i socialisti. Mentre Junts per Catalunya torna a sognare l’indipendenza della Catalogna, e il suo leader Carles Puigdemont non vede l’ora che l’amnistia diventi effettiva per poter tornare a far politica sul territorio, intanto le elezioni regionali anticipate al 12 maggio sono un ulteriore innesco di sospetti e attacchi intestini.
Questo mercoledì Pere Aragonès i Garcia, che fa parte di Erc, ha sciolto il parlamentino catalano, incagliato sulla legge di Bilancio, e ha convocato appunto le elezioni. Il giorno successivo, Puigdemont ha attaccato: la mossa di anticipare il voto sarebbe frutto di un patto tra Sánchez e Aragonès per impedirgli di partecipare alla corsa per la guida della regione.
L’effetto domino delle dinamiche apparentemente locali si intravede già, a cominciare dal fatto che la gittata delle politiche di Sánchez esce ridimensionata. Pare che invece di esercitarsi su una nuova finanziaria il leader socialista debba ripiegare su qualche adattamento di quella precedente. Il Bilancio del 2023 sarà quindi prorogato al 2024, e per il resto si ragiona già sul 2025. Una scelta scattata assieme all’anticipo di elezioni catalano: è il segno evidente che una regione può condizionare un’area più vasta. Vale per Catalogna e Spagna, ma pure un po’ per Spagna ed Europa.
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