Picchiati, morsi dai cani, spogliati e derubati di soldi e telefono oppure costretti a strisciare lungo un canale. Girando il biglietto da visita del sistema d’accoglienza che la Bulgaria offre a migranti e richiedenti asilo c’è una scritta, inequivocabile: pushback.

Tradotto, respingimenti illegali e contrari al diritto internazionale.

Da Sofia gli ultimi dati del ministero dell’Interno parlano di oltre diecimila casi di migranti rientrati volontariamente in un paese vicino nei primi quattro mesi di quest’anno, mentre nel 2023 la polizia di frontiera bulgara avrebbe sventato circa 160mila tentativi di attraversamento irregolare.

Cifre consistenti che, però, non convincono i responsabili delle organizzazioni umanitarie che da tempo si battono per la tutela dei diritti umani nella prima porta dell’Europa lungo il game, la rotta balcanica.

Ogni anno transitano dalla Bulgaria migliaia di persone provenienti principalmente da Afghanistan e Siria: varcano il confine passando dalla Turchia ma il loro obiettivo è proseguire verso nord-ovest. Chi arriva sogna la Francia, la Germania o l’Austria, a volte perfino l’Italia, ma la realtà è ben più complicata.

I centri di detenzione

Busmantsi, Elhovo e Lyubimets sono i tre centri di detenzione presenti in Bulgaria. Qui, secondo il database del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, viene applicata sistematicamente una forma detentiva nei confronti dei richiedenti asilo, a partire dalla presentazione della domanda fino all’avvenuta registrazione. Un processo che, molte volte, si svolge proprio all’interno dei centri di detenzione dove gli irregolari attendono l’espulsione.

Le testimonianze raccolte dalla piattaforma internazionale “InfoMigrants” raccontano di una situazione drastica in quanto a sicurezza, pulizia e dignità: telecamere di sorveglianza in stanze sovraffollate, servizi igienici inaccessibili, sporcizia, insetti e cibo avariato.

In pratica, una prigione per i migranti irregolari intercettati sul territorio bulgaro. Qui, privati del cellulare e in balia delle violenze degli agenti di polizia, è possibile formalizzare la richiesta d’asilo, ma la maggior parte dei presenti va incontro a procedure di rimpatrio.

Le denunce

A partire dal 2021 le denunce di maltrattamenti e respingimenti illegali alla frontiera si sono intensificate fino al 2023, ultimo anno prima dell’adesione della Bulgaria a Schengen.

Su tutte, grande eco ha avuto la vicenda del black site di Sredets: secondo un’inchiesta del collettivo “Lighthouse Report”, un centro di detenzione illegale in cui rifugiati e migranti, privati del diritto di chiedere asilo, venivano trattenuti prima del pushback e che sarebbe stato finanziato con fondi europei gestiti dalle autorità di frontiera bulgare.

Dal 31 marzo 2024 Sofia è entrata a far parte dell’area di libera circolazione dell’Ue dopo aver partecipato al Progetto Pilota finanziato dalla Commissione europea allo scopo di organizzare «procedure di asilo rapide, rimpatri più efficaci e una maggiore protezione delle frontiere», come sintetizzato dalla commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson.

L’emergenza continua

Tutto questo, però, non sembra aver posto un freno all’emergenza migratoria. Ad Harmanli, non lontano dalla Turchia, è stata da poco inaugurata un’area dedicata all’accoglienza dei minori non accompagnati, per una capienza di 98 posti. Troppo pochi stando alle statistiche ufficiali: sugli oltre ventiduemila richiedenti asilo registrati nel 2023, quasi quattromila erano minori, un centinaio dei quali d’età inferiore ai tredici anni.

Da gennaio a aprile 2024 sarebbero già 358 i minori arrivati in Bulgaria, provenienti per lo più dalla Siria: ad attenderli il centro di Voenna Rampa, un enorme edificio immerso nel grigiore dell’area industriale di Sofia. Un luogo che dovrebbe rappresentare l’ultimo tassello dell’accoglienza per i minori ma che, invece, finisce per essere l’unica alternativa a un sistema di protezione nazionale inadeguato all’impennata degli arrivi.

A distanza di anni, il confine fra Turchia e Bulgaria resta uno dei punti più spigolosi dell’intera rotta balcanica, ma denunciare le violenze subite molto spesso non viene neppure considerata un’opzione plausibile.

Farlo significherebbe autodenunciare la propria presenza sul territorio nazionale e, pertanto, rimanere vincolati ad un paese che, nonostante i progressi in ambito comunitario, continua a non essere in grado di gestire al meglio l’emergenza migratoria.

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