Quello che si è appena tenuto a Bruxelles era un Consiglio europeo inedito per tante ragioni: il primo con António Costa alla guida, il primo ufficiale dopo la vittoria di Donald Trump (perché quello tenutosi a Budapest a novembre era solo un summit informale). Ma soprattutto il primo con la Germania zoppa (perché lo sfiduciato governo Scholz è ufficialmente moribondo).

E in questo contesto così delicato, che ruolo ha svolto l’Italia? Giorgia Meloni si è organizzata per la seconda volta il suo pre-vertice parallelo sui migranti, dopodiché, avendo ritenuto che assieme all’Ucraina «la riunione informale sul fenomeno migratorio» fosse il «momento di confronto più importante», causa influenza ha lasciato il summit ufficiale per andarsene in albergo. E ha delegato al posto suo la Grecia, ovvero il premier Kyriakos Mītsotakīs.

Mentre Olaf Scholz, ormai in campagna elettorale, rilasciava dichiarazioni sul comparto automobilistico, e Ursula von der Leyen annunciava per gennaio il «dialogo strategico sul futuro dell’industria automobilistica in Europa», il principale lascito di Meloni sui dossier europei è stato – anche questo giovedì –  il tentativo di trasformare la sua personale ossessione sui centri albanesi – «funzioneranno dovessi passarci ogni notte», ipse dixit – in una ossessione europea, assecondata in questo da von der Leyen.

Le due – presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea – stanno trasformando i pre-vertici informali con alcuni leader (ma non tutti) sui migranti in un appuntamento sistematico, piegando così alla propria missione propagandistica l’architettura istituzionale dell’Unione. Del resto nelle sue repliche al Senato la premier aveva fatto intendere piuttosto esplicitamente che il suo piano vada a detrimento dell’integrazione europea. «L’Ue deve occuparsi di meno cose», ha dichiarato.

«E deve farle meglio», ha aggiunto. Ma che la sua via sia migliore è tutto da dimostrare. Per il momento pure Marine Le Pen contesta questo assunto. «Non credo che questa sia la soluzione», è la risposta che la leader del Rassemblement national ha dato al cronista di El País che l’ha interrogata sul «piano di Meloni di creare centri di deportazione fuori dalle frontiere dell’Ue».

Il summit parallelo

Dopo aver spostato il dibattiito Ue dalla solidarietà interna alla frontiera esterna, la premier deve ora far fronte alla realtà: la frontiera esterna siamo anzitutto noi, ovvero le nostre coste, che proprio assecondando la sua narrazione rischiano di diventare l’hotspot d’Europa. Perciò Meloni ha lanciato l’esperimento albanese, che von der Leyen – già in passato disposta ad assecondare l’estrema destra sul versante della propaganda anti migranti ben più che su dossier come gli aiuti di stato o il patto di stabilità – ha annoverato tra le sperimentazioni, le «soluzioni innovative», come la Commissione le chiama da mesi.

Nel precedente Consiglio europeo ufficiale, a ottobre, Meloni – assecondata da von der Leyen e legittimata dalla sua presenza – aveva già inaugurato il pre-vertice sui migranti, affiancata dalla socialista danese Mette Frederiksen (che per l’occasione aveva dato buca all’incontro del suo partito europeo) e dal premier olandese Dick Schoof, alter ego di Geert Wilders. Donald Tusk (il premier polacco, azionista di rilievo della famiglia popolare europea) aveva partecipato mosso da un interesse cogente: far sì che Bruxelles avallasse la sua politica di respingimenti illegali alla frontiera con la Bielorussia, terribilmente simile alla politica dei predecessori ultraconservatori del Pis. Tusk ha raggiunto il suo obiettivo, come aveva annunciato già a ottobre e come le prese di posizione della Commissione hanno in seguito confermato.

Quanto a Meloni, può esibire gli sconfinamenti a destra, visibili anche nella lettera ai leader di von der Leyen, che asseconda il versante propagandistico della premier promettendo «che una cornice legislativa sui rimpatri sarà tra le prime grandi proposte del nuovo collegio, da presentarsi entro marzo».

Anche nel vertice di questo giovedì, così come in quello di ottobre, Meloni e von der Leyen hanno piegato il summit a una configurazione anomala: è abitudine che ciascuna famiglia politica faccia il punto coi propri leader prima del vertice (nel “pre-vertice”), ma è anomalo che sistematicamente la presidente di Commissione Ue (non del Consiglio peraltro) legittimi un summit parallelo informale con alcuni paesi (oltre a Italia, Danimarca e Olanda, anche Cipro, Grecia, Malta, Repubblica Ceca, Polonia, Svezia e Ungheria). «Gli hub per migranti saranno un tema, oggi vado in Finlandia del Nord con Meloni e Mitsotakis a discutere del dossier flussi», dice il premier Ulf Kristersson, che in Svezia ha rotto il cordone sanitario verso l’estrema destra.

I contrari

«Ai colleghi socialisti europei ho raccontato – dopo la mia visita nei centri in Albania – che quei centri sono un fallimento clamoroso», ha detto questo giovedì da Bruxelles la segretaria dem Elly Schlein. Tra gli animatori dei “summit informali” c’è anche una socialista (Frederiksen), ma il Pse ha appena approvato una risoluzione che ribadisce «la contrarietà del partito europeo alle forme di esternalizzazione delle frontiere».

Gli affondi contro il modello Meloni – non solo quello Albania – sono arrivati in queste ore dalle parti più disparate: Romano Prodi, Marine Le Pen. Il primo ha dichiarato che «Meloni è stata ubbidiente prima con Orbán, poi con von der Leyen» ed «è più insidiosa di Berlusconi». Pure la leader dell’estrema destra francese ha puntato il dito contro la relazione stretta tra premier e presidente di Commissione.

A suo dire, l’ipotesi di gruppo unico di estrema destra è fallita per «la relazione di Meloni con von der Leyen. L’Italia ha bisogno dell’Ue, è in una situazione diversa dalla Francia, con il Pnrr doveva recuperare 240 milioni, non 40 come noi». Poi l’affondo finale: «Noi non siamo in queste condizioni, ci possiamo prendere la libertà di criticare la Commissione. Ma non giudico Giorgia». Guardati dagli amici perché dai nemici...

© Riproduzione riservata