È una vittoria schiacciante quella incassata dal presidente Aleksandar Vucic alle amministrative che si sono svolte domenica scorsa in 89 città e comuni della Serbia. La coalizione guidata dal suo partito, i progressisti dell’SNS, si è imposta nella quasi totalità dei centri, accaparrandosi anche Belgrado, la reale posta in gioco già dalla tornata elettorale di dicembre 2023.

Mezzo anno fa, nella capitale l’SNS aveva vinto di misura sul fronte delle opposizioni riunite nel movimento “Serbia contro la violenza” scaturito dall’ondata di indignazione seguita alle sparatorie di massa che avevano insanguinato Belgrado e di cui una parte dell’opinione pubblica attribuisce la responsabilità alla ‘cultura’ della violenza alimentata dalla propaganda di regime. Il voto era stato segnato in tutto il paese da diffuse irregolarità e accuse di brogli che avevano spinto migliaia di manifestanti in piazza a chiedere la ripetizione del voto. Gli osservatori internazionali avevano denunciato le «condizioni ingiuste» in cui si erano svolte le elezioni, dovute al «coinvolgimento decisivo del presidente» e ai «vantaggi sistemici del partito al potere».

Dopo il naufragio delle trattative per la formazione del governo a Belgrado, si era quindi optato per nuove elezioni.

La presa di Belgrado

Di fronte allo sgretolarsi delle opposizioni che si sono presentate divise al voto facendo crollare l’affluenza, l’SNS ha preso il sopravvento conquistando la città bianca. L’opposizione si è consolata invece con il buon risultato ottenuto a Nis, terza città della Serbia, e da quello nella capitale di Kreni-promeni (Dai il via al cambiamento) movimento guidato da Savo Manojlovic nato dalle proteste contro il progetto Jadar di Rio Tinto per l’apertura di quella che sarebbe la più grande miniera di litio in Europa.

Ma dietro questa «vittoria incredibile» come l’ha definita Vucic, si cela una debolezza strutturale della politica serba, della maggioranza, oltre che dell’opposizione. Anche questo voto è stato segnato da irregolarità e brogli elettorali.

Secondo il Centro per la Ricerca, la Trasparenza e la Responsabilità (CRTA) i risultati delle votazioni sono stati compromessi nel 9 per cento dei seggi elettorali di Belgrado. Per il direttore Rasa Nedeljkov, «queste elezioni non possono essere considerate libere ed eque» a causa delle «diffuse irregolarità» registrate sebbene «non possano mettere in discussione la vittoria elettorale della lista più forte». Nedeljkov ha usato poi un termine preciso per descrivere il voto a Belgrado: «devastante» sotto l’aspetto dell’integrità elettorale, dello stato di diritto e della democrazia.

Sia nella capitale che a Novi Sad, seconda città della Serbia, sono stati allestiti dei call center, gestiti dall’SNS, per ‘incoraggiare’ gli elettori a votare per il partito. In uno dei call center di Novi Sad, si sono registrati degli scontri, con tanto di lancio di lacrimogeni, con attivisti e giornalisti che cercavano di entrare negli edifici. Non è un caso isolato.

Crepe nel sistema

La campagna elettorale e il voto si sono svolti in un clima di tensione e violenza che ha raggiunto un nuovo, preoccupante livello. Non solo violenza fisica: la retorica nazionalista del presidente Vucic ha assunto toni particolarmente gravi, con frequenti richiami alla vicenda della risoluzione adottata dall’Onu sul genocidio di Srebrenica e osteggiata da una feroce campagna promossa dalla Serbia.

E questo perché, checché ne dica Vucic, la sua presa di potere in Serbia inizia a mostrare delle crepe. A partire dal centro, Belgrado, dove «l’incredibile vittoria» dell’SNS è dovuta a principalmente al crollo dell’affluenza, alle croniche divisioni dell’opposizione e ai brogli. Il quadro è molto ben chiaro a Vucic che negli ultimi mesi si è riavvicinato al suo alleato, il leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, dopo una parentesi di allontanamento. Dodik era stato ben felice di aiutare Vucic in affanno fornendo autobus carichi di elettori serbo-bosniaci per ‘gonfiare’ il voto dello scorso dicembre. Un’unione di debolezze, quella tra Vucic e Dodik, che negli ultimi mesi si è trasformata in una fonte ulteriore di destabilizzazione per la regione, ma soprattutto per la Bosnia-Erzegovina dove la Repubblica serba è tornata a minacciare la secessione da Sarajevo con un accordo per una «separazione pacifica» dopo il voto Onu sul genocidio di Srebrenica. E questo nonostante il percorso venato di contraddizioni verso l’adesione all’Ue intrapreso dalla Bosnia-Erzegovina e accelerato negli ultimi mesi.

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