Attorno al meloniano è stata costruita una rete di protezione e in audizione non salterà la sua poltrona. Ma le schermaglie politiche legate alla sua vicepresidenza – in quanto simbolo della deriva sempre più destrorsa del Ppe e di von der Leyen – potrebbero portare ai tempi supplementari mercoledì
Di tutto il calendario di audizioni dei commissari europei, questo martedì è il giorno più atteso, anche se potrebbe non essere quello conclusivo: i ricatti tra i gruppi rendono probabile un tempo supplementare il giorno successivo.
Il fatto è che ora tocca ai vicepresidenti e si comincia alle 9 con Raffaele Fitto, sul quale si sono concentrate tutte le tensioni politiche generate dal doppio gioco dei Popolari europei, che hanno fatto leva su una maggioranza coi progressisti per far rieleggere Ursula von der Leyen, ma sbandano verso l’estrema destra a ogni occasione utile.
La tela di Fitto
Fitto, che non ha mai perso l’attitudine democristiana e che è stato il vero regista dell’alleanza tattica tra Ppe e Giorgia Meloni quando era all’Europarlamento, non rischia di perdere il posto di commissario. Nella commissione che ne decide le sorti, quella per lo Sviluppo regionale, sono appostate facce amiche (Francesco Ventola e Denis Nesci) della sua famiglia politica, e amichevoli meno a destra (Lello Topo per il Pd). I conservatori hanno già tessuto la tela che sorreggerà il meloniano: senza grande pubblicità, nel lungo e complesso ciclo di audizioni svoltosi la scorsa settimana i conservatori hanno recitato la parte della maggioranza responsabile; hanno digerito pure i nomi socialisti, sia per blindare Fitto sia perché puntano a integrare sempre più la maggioranza tradizionale.
A dispetto delle tempeste verbali che ne fanno apparire burrascoso il battesimo, la seconda Commissione von der Leyen si candida a essere ineditamente destrorsa per due ragioni: anzitutto perché lo è già costitutivamente, per come von der Leyen ha disegnato i portafogli e per la composizione, con una egemonia dei Popolari e con una concessione simbolica ai meloniani di una vicepresidenza.
In più, mentre di solito qualcuno non supera la graticola (nel 2019 era capitato a László Trócsányi, Rovana Plumb e Sylvie Goulard), stavolta le schermaglie si concentrano su un ritocchino alle deleghe, la cui ridefinizione passerà comunque da von der Leyen. Nessuno ha davvero intenzione di far saltare Fitto in sé; e neppure il più esposto negativamente di tutti i commissari – l’orbaniano Olivér Várhelyi – rischia a quanto pare di restare fuori dalla squadra, ma semmai di arrivarci col portafoglio più sguarnito.
I cavalli e il rinvio
Anche se nessuno contesta Fitto in quanto tale, una parte (neppure tutta) dell’ala progressista dell’Europarlamento spinge per mettere in discussione l’assegnazione di una vicepresidenza esecutiva a un meloniano, conferita da von der Leyen dopo che Fratelli d’Italia le ha pure votato contro. Adesso che passano alla graticola i vicepresidenti, ci aspettano quindi ore di grandi fiammate politiche, che potrebbero protrarsi fino a mercoledì, quando è stato rinviato Várhelyi, e c’è l’eventualità che vengano rinviati tutti i vice se scattano i veti reciproci.
Per la capogruppo socialista Iratxe García Pérez la priorità è blindare Teresa Ribera, sancheziana come lei; il Pd ufficiosamente si accontenterebbe di fare a Fitto un test di europeismo (che ci si attende superi, democristianamente). Ma nel gruppo S&D, dove ormai i partiti al governo sono sempre meno, c’è chi spinge alla rivolta su Fitto, a cominciare dai francesi come Raphaël Glucksmann. «Certo non sosteniamo Fitto come vicepresidente», ha detto questo lunedì la scholziana Gabi Bischoff. E che dire dei Verdi? Avevano scommesso di far da stampella a von der Leyen e si ritrovano Meloni che spadroneggia.
García Pérez, che in generale in questi anni di continue complicità tra Ppe e Meloni non ha mai osato particolarmente, non metterebbe mai a rischio Ribera: infatti dice che «non la si può paragonare a Fitto», perché i socialisti sono in maggioranza. La questione delle deleghe – l’unica sulla quale pure Várhelyi uscirà dimezzato – diventa quindi il vero oggetto dei negoziati. Lo chiamano horse trading perché ogni affondo politico rischia una contropartita: ecco perché finora nessun papabile commissario 2024 ha davvero perso il posto, ed è probabile che nessun nome esca gravemente sconfitto questa settimana.
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