Ha decretato la fine di un leader e la débacle di un campo politico. Ha segnato le esistenze molto più che le economie. A cinque anni dal referendum su Brexit del 23 giugno 2016, sappiamo che quel voto non ha diviso solo il Regno Unito dall’Unione europea
- Dal 2016, il partito laburista continua a pagare il conto dei propri atteggiamenti titubanti: è valso per Jeremy Corbyn ma è vero anche per Keir Starmer.
- I giovani europeisti faticano a sentirsi rappresentati. E gli europei del Regno Unito si sentono tuttora traditi e in un limbo giuridico. In centinaia di migliaia ancora aspettano il “settled status”.
- Mentre si allontana dall’Ue e si disgrega, il Regno Unito non trova per ora grandi contropartite. Dall’accordo di libero scambio appena concluso con l’Australia ci si aspetta una crescita del Pil britannico dello 0,02 per cento in quindici anni.
Ha decretato la fine di un leader e la débacle di un campo politico. Ha segnato le esistenze molto più che le economie. A cinque anni dal referendum su Brexit del 23 giugno 2016, sappiamo che quel voto non ha diviso solo il Regno Unito dall’Unione europea.
Un partito in trappola
A giugno 2016, con una maggioranza risicata del 52 per cento, vince il Leave. Nel 2019, sconfitto alle elezioni generali, il leader laburista Jeremy Corbyn si dimette. Maggio 2021: alla guida del partito stavolta c’è Keir Starmer, le elezioni sono locali, i risultati deludenti; le dimissioni non arrivano, ma in compenso Starmer le impone ad alcuni dirigenti di partito. Dopo cinque anni il voto per Brexit ancora determina le fratture e le crisi della politica britannica. E lo fa soprattutto a sinistra: da allora non si è ripresa. Sia i conservatori sia i laburisti hanno avuto divisioni interne sull’approccio all’Ue, ma Boris Johnson due anni fa è stato chiaro almeno a parole: con «Get Brexit done!» ha stravinto le elezioni e ha fatto breccia anche nel “red wall”, le fortezze laburiste al nord dell’Inghilterra. La sinistra invece paga tuttora le indecisioni sue e dei suoi leader su Brexit. Formalmente, i laburisti hanno sostenuto il Remain; ma, complice la posizione anti-Bruxelles di alcuni territori e le divergenze mai sciolte, Corbyn si è rivelato un leader titubante. «Un paio di settimane prima del referendum su Brexit, sono diventata il suo braccio destro», racconta Laura Parker; nel 2015, da coordinatrice di Momentum, aveva contribuito al suo trionfo come segretario. «A novembre 2017 ho lasciato il suo gabinetto. La principale ragione? Proprio la sua titubanza sui rapporti con l’Ue».
Generazioni senza leader
Corbyn non è in piazza a marzo 2019, quando centinaia di migliaia di persone lambiscono Hyde Park per dire che vogliono restare in Europa. Nonostante il lungo stallo politico di quei mesi, che culminerà a maggio con l’annuncio di dimissioni e le lacrime di Theresa May, il leader non è lì a capitalizzare il dissenso dei tanti europeisti. «Corbyn, this isn’t something we could forgive», «Non te lo potremo mai perdonare», è uno dei cartelli esibiti in quella marcia dai più giovani. E in effetti non glielo hanno perdonato: «Tra le nuove generazioni, in molti sono rimasti frastornati dagli ondeggiamenti del Labour, e hanno preferito magari appoggiare i Verdi», dice Owen Winter, che è esperto di dati e politica e ha fondato “Make Votes Matter”. I ragazzi che il 23 giugno avevano scelto l’Ue si sono trovati senza un’adeguata rappresentanza. Alle elezioni del 2019, mentre Johnson prometteva di uscire dallo stallo, Corbyn diceva: «Ridiamo la parola alla gente», ridiscutiamone. «Ha confuso e non ha convinto», dice Parker. «Per me è incredibile: il Labour va forte nelle metropoli, tra i giovani, i migranti, tutte forze pro Ue; e invece è rimasto ostaggio di quella fetta di iscritti anti Ue. Io, radical di sinistra, ho pagato un costo politico, per essere rimasta dichiaratamente europeista». La leadership di Starmer non è meno confusa: in molti non gli perdonano di aver votato e sostenuto il Brexit deal di Boris Johnson, senza esprimere un’alternativa netta. A maggio anche questa leadership ha pagato un costo alle urne per la sua titubanza.
Gli europei nel limbo
Mentre i labour ondeggiavano, Boris Johnson andava all’assalto delle istituzioni. Una volta presa Downing Street, in piena crisi Brexit ha sospeso l’aula fino a metà ottobre tanto che la Corte suprema ha lanciato l’allerta sui rischi per la democrazia. Ha perso la maggioranza in aula, è stato accusato di “bullismo verbale”, ha ridotto senza voce l’allora speaker della Camera, John Bercow, che all’epoca urlava “Order!” e che oggi ha mollato i conservatori per i Labour. Ma le tensioni non si fermano al dibattito politico. «C’è tuttora un clima di incertezza giuridica», dice Elena Remigi, che proprio cinque anni fa ha iniziato il progetto “In Limbo” raccogliendo le testimonianze di europei del Regno Unito. «Noi britannici d’adozione ci sentiamo ancora in un limbo, Brexit ha messo in discussione il senso di appartenenza e di accoglienza. Nel sondaggio che facciamo ogni anno c’è una parola che tuttora vince su tutte: betrayed. Ci sentiamo traditi». Anche adesso, che in teoria c’è il settled status, con il quale gli europei che ne hanno fatto richiesta possono continuare a risiedere nel Regno Unito, «molti di noi non lo hanno ancora ricevuto». Il prossimo 30 giugno scade il “periodo di grazia”, «chi non è regolarizzato rischia di diventare illegale, di perdere il lavoro, ma ci sono ancora almeno 300mila persone che aspettano di ricevere lo status. Tra queste, 80mila bambini, che rischiano di rimanere nel limbo. In più, la mia posta è piena di messaggi di chi è in difficoltà con la pratica».
Ambiente ostile
A luglio i problemi emergeranno. Lo pensa anche Dimitri Scarlato, direttore d’orchestra, romano di Londra, tra le anime della campagna europeista The3million: «Ci sono persone vulnerabili e anziane che non si sono registrate in tempo: che atteggiamento avrà il governo verso di loro?». Ostile, ma anche «sproporzionato» e «pesante» è il modo in cui la stessa opinione pubblica britannica ha definito l’atteggiamento del proprio governo a maggio: l’Home Office è arrivato a trattenere in centri di detenzione alcuni europei che provavano a entrare nel paese. «Gli errori possono capitare, e con questo ambiente ostile c’è timore a far venire i nostri parenti a trovarci», dice Elena. Giuseppe Pichierri, biologo in un ospedale londinese, aspettava l’arrivo della cugina Marta Lomartire come ragazza alla pari. Dopo l’esperienza della ragazza, detenuta ed espulsa, Pichierri ha pensato: «non so se voglio rimanere io stesso in un paese così».
L’impero fragile
Il referendum del 2016 «ha creato o rivelato divisioni», dice Andrea Pisauro, ricercatore a Oxford. «Brexit è una guerra di religione rimasta implacata. Le spinte anti-establishment si sono ritorte contro l’Ue, ma anche l’unità del Regno è a rischio». Pisauro ha promosso Europe for Scotland per accogliere una Scozia indipendente (ed europeista) in Ue. Nelle due Irlande il tema dei controlli doganali è spinoso al punto che il brexitaro Johnson punta sulle deroghe per rinviare gli effetti negativi della sua stessa Brexit. Mentre si allontana dall’Ue e si disgrega, il Regno Unito non trova per ora grandi contropartite. Dall’accordo di libero scambio appena concluso con l’Australia ci si aspetta una crescita del Pil britannico dello 0,02 per cento in quindici anni. «Per questo magro bottino, concluso in fretta e in gran segretezza, il governo è riuscito in compenso a far andare su tutte le furie la national farmers union, gli agricoltori, che temono pressioni competitive» dice Elena Crasta di Etuc, il sindacato europeo. Qual è l’impatto della Brexit sui lavoratori? «È presto per dirlo, anche perché si è intrecciata con la pandemia. Di una cosa sono contenta: a gennaio il governo voleva avviare una “revisione” dei diritti dei lavoratori ma ha dovuto fare marcia indietro». È grazie a una direttiva europea del 1997 che sei milioni di lavoratori britannici hanno ottenuto per la prima volta il diritto a venti giorni di ferie annui.
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