Se si va avanti a questo ritmo, servirà ancora un secolo alle donne tedesche per essere retribuite quanto i colleghi uomini. Alle francesi addirittura un millennio. In nove paesi la situazione non farà che peggiorare, in tre invece il divario sarà colmato in un decennio, ma solo perché la paga è così bassa per tutti che la differenza non si nota. Le europee guadagnano in media, all’ora, il 14 per cento in meno dei maschi. In Italia le donne guadagnano il 4 per cento in meno, uno dei tassi più bassi d’Europa (la Germania è al 20); dove il tasso di impiego femminile è basso, la disparità è meno visibile. Il 3 marzo la Commissione europea presenterà la sua proposta per una direttiva sulla trasparenza retributiva, ma è servita una forte pressione per resuscitare il progetto. Ha rischiato di finire insabbiato, proprio mentre la crisi da Covid-19 pesa di più sulle donne.

Più parole che fatti

Luglio 2019: «Nei primi cento giorni del mio mandato, mi attiverò per introdurre misure obbligatorie sulla trasparenza delle retribuzioni». Parola di Ursula von der Leyen, che a dicembre di quello stesso anno conquista la presidenza della Commissione Ue. Marzo 2020: «Ci saranno misure vincolanti entro fine anno». Un mese dopo, un documento interno rivela altre intenzioni: «Non è detto che questo sia il momento giusto». Eppure già in quella primavera di prima ondata, escono i primi dati e studi – come quello della London School of Economics – che avvertono su ciò che oggi è evidente a tutti: «Questa crisi sta aggravando i divari, le donne perdono il lavoro più degli uomini, sono soprattutto loro a portare il carico dei lavori di cura e della famiglia, e sono le più impiegate in lavori in prima linea». Perché allora non è il momento giusto? Un indizio arriva quando Bruxelles apre la consultazione con parti sociali e cittadini. La lobby che rappresenta il mondo industriale europeo, Business Europe, esprime questa posizione: «L’idea della Commissione introduce appesantimenti burocratici che producono costi non necessari per le aziende». Insomma, mentre le donne pagano i costi della crisi, i datori di lavoro non vogliono pagare «il costo inutile» di riequilibrare i divari.

La svolta di marzo

Capodanno passa senza che Bruxelles batta ciglio, intanto la promessa dei 100 giorni fatta da von der Leyen è tradita. Giulia Barbucci, che è vicepresidente del Comitato economico e sociale europeo, dice: «La direttiva era scomparsa dall’agenda del collegio dei commissari. Il progetto era stato accantonato. Per scuotere Bruxelles sono servite le pressioni di associazioni di donne, sindacati, europarlamentari». Scatta così l’operazione “gatti”. A gennaio, nei pressi di palazzo Berlaymont che è la sede dell’esecutivo Ue, compaiono locandine con la foto di un gatto e la scritta: «Missing». «La stiamo cercando: la pay transparency directive che fine ha fatto? L’ultima volta che l’abbiamo vista è negli annunci di von der Leyen».

Il blitz ironico di Etuc, la confederazione dei sindacati europei, incassa anche l’appoggio della presidente della Commissione per l’uguaglianza di genere dell’europarlamento, la socialdemocratica Evelyn Regner. Che twitta gatti a sua volta. Dopo qualche settimana arriva la notizia: il 3 marzo la Commissione presenterà la sua proposta. I contenuti sono ancora riservati. Dalle prime indiscrezioni è assodato che Bruxelles proporrà che le aziende sopra una certa grandezza pubblichino un resoconto interno sulla differenza di salari e che, in caso di disparità, siano obbligate a presentare un piano per ridurla. Rimangono alcuni nodi politici da sciogliere entro marzo.

I diritti ci sono, a metà

Quanto radicale sarà la richiesta di trasparenza? Sarà ancora possibile per le aziende usare la “clausola di segretezza”? Il tema è importante proprio perché in teoria in Europa la parità retributiva è già un diritto, ma nei fatti lo si svicola, perciò la funzione di questa direttiva (che gli stati dovranno recepire entro due anni) è di promuovere l’esercizio effettivo di un diritto che già c’è. Il principio della parità di retribuzione è inscritto nelle fonti primarie del diritto dell’Unione. Il Trattato sul funzionamento dell’Ue all’articolo 157 dice che «ogni stato assicura l’applicazione del principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e femminile». L’Italia, poi, è all’avanguardia: questo principio era in costituzione già dal dopoguerra (articolo 37). Nel 2006 con la direttiva 54 l’Ue ha ribadito la parità di trattamento. Aldo Bottini, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani, dice: «A seguito di quella direttiva il nostro codice delle pari opportunità già obbliga le aziende con almeno 100 dipendenti a riferire sulle retribuzioni ai sindacati e alla consigliera delle pari opportunità». Eppure, le europee continuano a essere pagate meno. Nel 2018 Carrie Gracie, giornalista della Bbc, per protesta si è dimessa: aveva realizzato che, a parità di lavoro, era pagata meno dei maschi.

Julian Scola di Etuc, il sindacato europeo, dice: «È cruciale che Bruxelles non lasci alle aziende la scappatoia della clausola di segretezza dei contratti». L’altra grande lotta riguarda la pari remunerazione a fronte di un lavoro di pari valore. Se si comparano i salari delle donne che lavorano in manifatture di elettrodomestici con uomini di quelle delle auto, in Germania le donne sono pagate 865 euro in meno al mese, per competenze comparabili. Anche su questo la direttiva potrà fare luce; sempre che sia ambiziosa.

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