Sono cominciate questo lunedì le audizioni dei commissari europei designati, ma il punto sul quale si scaricheranno tutte le tensioni politiche è il 12 novembre.

Anche in questo l’Italia con Meloni ha raggiunto l’Ungheria di Orbán: oltre al controverso commissario orbaniano in cerca di riconferma, Olivér Várhelyi, il nome sul quale si concentra lo scontro è quello del meloniano Raffaele Fitto.

Il fatto che gli venga assegnata una vicepresidenza esecutiva diventa la linea di faglia di uno slittamento degli equilibri verso la destra estrema, con la quale sia i Popolari europei che la presidente von der Leyen stessa stanno giocando sempre più di sponda.

Fitto è quindi il più chiacchierato, citato, contestato di tutto il ciclo di audizioni. Non significa che rischi la bocciatura.

Il punto di caduta

La composizione della commissione che ne deciderà le sorti – quella per lo sviluppo regionale (Regi) – prelude a un atterraggio relativamente morbido: di meglio l’ex democristiano non avrebbe potuto pensare.

Il suo corregionale pugliese Francesco Ventola, da lui sostenuto in campagna elettorale, è stato piazzato come vicepresidente da Ecr. Pure come coordinatore (servono i due terzi dei coordinatori perché un commissario passi) Ecr ha messo una faccia amica per Fitto, Denis Nesci.

Il coordinatore dei socialdemocratici è uno spagnolo, che non vorrà creare intoppi a Teresa Ribera, da audire dopo il meloniano. E quanto al Pd, in quella commissione siede un ex democristiano, Raffaele (detto “Lello”) Topo, politico non di primo pelo e verosimilmente non di rivoluzioni anti Fitto.

«Non credo che lui farà errori in audizione e non ci sono problemi sulla sua persona, che rispetto», dice infatti Topo a Domani. «Il tema è tutto politico, sulla vicepresidenza, e quello dovrà scioglierlo la coalizione».

Fosse per i Verdi europei, che in estate si erano offerti a von der Leyen come stampella alternativa ai meloniani, bisognerebbe almeno rivedere le deleghe, l’indigesta vicepresidenza esecutiva. Ma l’ipotesi di sfilarla è annoverabile al momento come ottimismo della volontà, senza che ci sia neppure la volontà.

Certo, c’è chi giura «mai vicepresidenze all’estrema destra», come il francese Raphaël Glucksmann; ma la capogruppo dei socialdemocratici, Iratxe García Pérez, ha come priorità l’approvazione dell’altra vicepresidente, Ribera, sancheziana come lei, e finora ha dato prova di non amare il rischio.

Quale sarà allora il punto di caduta? La dinamica delle audizioni entra nel vivo adesso: il finale non può essere già scritto. Ma se si parla con garanzia di anonimato, tra i socialdemocratici c’è chi si accontenterebbe di «aggiungere alla ventura commissaria socialista Roxana Mînzatu una esplicita delega al Lavoro» (il che non sarebbe un progresso, ma evitare l’arretramento portato da von der Leyen nel suo bis). Insomma, aggiungere ai socialisti più che sottrarre a Fitto. E tra i pidini Ue nello specifico, autorevoli esponenti riterrebbero già uno scalpo «che Fitto dichiarasse valori europeisti che contraddicano quelli della premier».

Chissà se insomma, dopo il rumore, resterà qualcosa, oppure, shakespearianamente, molto rumore per nulla, much ado about nothing. «La si risolve a compromessi»: è la traduzione fittian-democristiana.

Fitto come spartiacque

Nel 2021, quando era capogruppo dei Conservatori europei, proprio Fitto ha costruito l’alleanza tattica tra meloniani e Popolari, aprendo un canale di dialogo costante con il leader del Ppe Weber e con von der Leyen; è stato lui il pontiere di Meloni a Bruxelles, e da commissario ne sarà il parafulmine.

Eppure chi ne contesta il futuro ruolo – data anche l’opera di mascheramento di Fitto che si dichiara europeista sin dai suoi inizi «nella Democrazia cristiana» – non fa leva su questo; significherebbe ricordare che all’epoca (a gennaio 2022) i socialisti hanno accettato i frutti di quell’alleanza tra Fitto e Weber, dando una vicepresidenza di Parlamento Ue a Ecr. La contestazione del fronte progressista è tutta concentrata sull’esito presente di una deriva lunga.

E l’esito presente è che von der Leyen, dopo aver messo in cassaforte la propria rielezione, è andata ai vertici sui migranti di Meloni; e il Ppe, dopo essersi appoggiato alla maggioranza tradizionale quando serviva, ha votato non solo con Ecr ma pure coi Patrioti e con AfD quando faceva comodo. Lo ha fatto di recente per garantire che l’audizione di Fitto fosse prima di Ribera, o votando con le destre estreme un emendamento sui centri migranti in stile Albania.

«Dopo l’approvazione di quell’emendamento però noi progressisti abbiamo fatto saltare la risoluzione finale», nota il capodelegazione dem Nicola Zingaretti. Intanto Weber sposta la soglia sempre più in là. «Maggioranza sui dossier», «maggioranze variabili», «doppio forno»: i nomi dati sono tanti, il meccanismo è sempre quello; appoggiarsi alla destra estrema quando fa comodo al Ppe, che ha già la maggioranza dei commissari.

Perciò l’assegnazione di una vicepresidenza esecutiva a un meloniano è un segnale – e un nodo – politico.

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