- Nella Repubblica Ceca il nuovo presidente, il generale Pavel, è europeista, a favore del matrimonio omosessuale, per la lotta ai cambiamenti climatici e per il suicidio assistito, a fianco di Zelensky.
- Pavel ha battuto l’uscente Babis, il Trump ceco. In Austria, invece, l’ultradestra dell’Fpö batte i popolari. Sono le parabole dei populisti nell’Europa centrale, una lezione per tutto il continente
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Il generale Pavel ama vestire jeans e giubbotto di pelle, parla quattro o cinque lingue, il suo slogan preferito contiene – che sorpresa di questi tempi – la parola “umiltà”. Ai suoi comizi, nelle settimane che hanno preceduto le elezioni presidenziali della Repubblica ceca, i cori «Pavel na Hrad» (Pavel al Castello, ossia alla residenza del capo di stato della Cechia) riecheggiavano volutamente quell’«Havel na Hrad» che era rimbombato nelle piazze nel fatidico novembre 1989 portando il grande drammaturgo, già perseguitato del regime, a conquistare la presidenza della Cecoslovacchia ed a diventare uno dei volti-simbolo della fine della guerra fredda: evocare Havel non solo vuole dire rendere omaggio al grande dissidente che amava Frank Zappa, vuol dire anche evocare una stagione di speranza, di colore dopo i decenni del grigiore.
Novità ceca
Molto di nuovo al fronte orientale, si potrebbe dire. Almeno dal punto di vista del populismo. Perché, come dicono i giornali cechi, Petr Pavel, l’ex generale della Nato poliglotta, è stato eletto «anche perché non è Andrej Babis»: miliardario, mogul mediatico (giornali e radio), populista, fervente perpetuatore della retorica anti-migranti, sensibile agli argomenti del premier ungherese Viktor Orban e chiamato in passato il «Donald Trump ceco», già primo ministro fino al dicembre 2021, con alle spalle accuse di frode ed in più al centro di accese polemiche per conflitto d’interessi ed il suo ruolo passato nella polizia segreta comunista.
Il sessantunenne Pavel è l’opposto: pur non alzando mai i toni della voce, ha battuto Babis con il 57 per cento dei voti contro il 43 per cento, oltre un milione di schede in più rispetto al contendente, e questo in una competizione che ha portato alle urne il 70 per cento degli elettori cechi sull’onda del motto «verità, calma, umiltà», che era chiaramente il controcanto allo stile politico stridulo di Babis. Detto altrimenti: il generale Pavel non ha inseguito Babis sul suo terreno, ossia quello del populismo dal sapore autocratico.
Europeista e atlantista
A Bruxelles, Berlino, Washington e Parigi si prende nota: l’elezione di Pavel «ha conseguenze non solo per il suo paese, ma anche per l’Unione europea», scommette la Zeit. Pavel è decisamente europeista, si è espresso a favore del matrimonio omosessuale, per la lotta ai cambiamenti climatici e per il suicidio assistito, in politica estera il primo atto da presidente eletto è stato quello di telefonare a Volodymyr Zelensky (un viaggio a Kiev è annunciato a breve).
Non a caso la campagna di Babis tuonava che Pavel intenderebbe trascinare il paese in guerra, interpretando la carriera militare dell’avversario (è stato anche presidente del Comitato militare della Nato) come una minaccia. «Io sono diplomatico, non un soldato», era scritto in caratteri cubitali sui suoi manifesti elettorali. Al che il generale – il quale nel 1992, nell’ambito delle missioni Onu in ex Jugoslavia salvò dalle bombe incrociate delle unità serbe e croate 50 soldati francesi nella base militare di Karin - risponde che «da soldato so bene cos’è la guerra, e non auguro a nessuno questa esperienza». L’argomento del suo passato di membro del partito comunista nei primi anni Ottanta non ha avuto molta presa a fronte del passato dell’ex agente dei servizi segreti di sicurezza Babis, secondo taluni in rapporti con il Kgb sovietico. Il giornale Respekt la sintetizza così: «Pavel è un prodotto esemplare dei cambiamenti del 1989», in quanto incarna un passaggio nel quale «chiunque aveva la possibilità di accogliere i principi del nuovo Stato libero e di svilupparli al meglio».
L’appuntamento a questo punto è al 9 marzo, quando assumerà ufficialmente la carica di capo dello stato. «Non ci sono stati vincitori né perdenti» in queste elezioni, ha ribadito Pavel, hanno vinto «i valori della dignità e del rispetto, e sono valori che condividiamo tutti». Non è un’affermazione buttata là a caso se è vero quel che riferiscono i media cechi, ossia che non si trasferirà al Castello di Praga subito dopo l’insediamento: appena gli uomini di Milos Zeman, il capo di stato uscente, lasceranno gli uffici presidenziali, il generale farà ispezionare l’intero palazzo per verificare che non sia infestato di cimici telefoniche. L’idea è semplice: glasnost per depurarsi dalle tossine, il Castello torni una casa di vetro, dialogo al posto della diffidenza.
I popolari in Bassa Austria
Corsi e ricorsi nello sfaccettato mondo del populismo, dicevamo. Perché a poco più di 300 chilometri di distanza da Praga, ossia in Bassa Austria, si è consumata una vicenda che solo all’apparenza si presenta come lo speculare opposto a quella del generale Pavel: per la prima volta dal 1998 il partito popolare (Övp) del cancelliere Karl Nehammer (e del suo predecessore, il giovane Sebastian Kurz, ex “enfant prodige” della politica abbattuto per una sgradevolissima storia di manipolazione di sondaggi), in questa regione non ha ottenuto la maggioranza assoluta. Un bagno di sangue: pur rimanendo primo partito, l’Övp ha perso dieci punti, praticamente un travaso con l’ultradestra dell’Fpö, che ne ha guadagnati altrettanti, piazzandosi al 24,5 per cento dei consensi, così staccando, e non di poco, i socialdemocratici, fermi al 20,7 per cento.
Si tratta di risultati significativi per almeno due motivi: un po’ perché la Bassa Austria era considerata la fortezza dei popolari, un serbatoio di voti che si credeva senza fine, un po’ perché rappresentano un campanello d’allarme in vista delle elezioni federali che si terranno tra un anno.
A oggi i populisti della destra, gli ex nipotini di Jörg Haider, sono tornati a dominare i sondaggi: l’“Ibiza-gate” del 2019 – quando la carriera dell’allora vicecancelliere nonché leader dell’Fpö, Heinz-Christian Strache, venne stroncata dalla diffusione di un video realizzato sull’isola iberica nel quale lo si vedeva offrire appalti pubblici ad una presunta ereditiera russa – sembra già il reperto di un passato remoto.
Ora, i commentatori più o meno concordano nell’individuare l’errore dell’Övp: rincorrere il populismo non paga, gli elettori preferiscono l’originale. Perché la campagna elettorale dei popolari ha riecheggiato tutti i temi dell’ultradestra, anche se «in termini più amichevoli», come sottolinea lo Spiegel. Così, laddove l’ultradestra definiva «terroristi» gli attivisti del clima più provocatori, la numero uno dei popolari in Bassa Austria, Johanna Mikl-Leitner, si limitava a invocare «pene esemplari».
Cercare un equilibrio
E questo mentre il cancelliere Nehammer era intento a flirtare con Viktor Orbán in Ungheria e con Aleksandar Vucic (il presidente nazional-populista tendenzialmente filorusso) in Serbia, nonché a bloccare l’ingresso di Romania e Bulgaria nel trattato di Schengen.
L’obiettivo doveva essere quello di replicare i trionfali successi di Sebastian Kurz, che in effetti aveva strappato non pochi voti all’Fpö: ma il bagno di realtà è stato impietoso. L’analisi degli osservatori è praticamente univoca: i popolari, così come la maggior parte dei partiti conservatori europei, non sono ancora riusciti a trovare una chiave convincente per rispondere alla sfida che arriva dalle destre nazional-populiste, adattando i propri programmi a quelli della concorrenza.
«La vittoria elettorale dell’Fpö mostra l’impotenza degli altri partiti», sentenzia il quotidiano austriaco Der Standard. Facendo intendere che se non ci sarà una correzione di rotta, le ombre sulle elezioni del 2024 e sui destini dello stesso Nehammer potrebbero farsi molto oscure.
La questione, si ragiona nella patria di Mozart, è che i conservatori del centro borghese non si sono liberati dello spettro di Kurz: definito «ministro della disintegrazione» ai tempi in cui guidava il dicastero degli Esteri (il più giovane ministro della storia), capello fluente pettinato all’indietro e maniere da seduttore, “Basti” (come si fa amichevolmente chiamare) aveva rivitalizzato i popolari austriaci su una chiara linea anti-migranti (frequenti i suoi dissidi anche con l’Italia), una volta giunto alla cancelleria aveva messo in piedi un robusto governo proprio con l’ultradestra (poi abbattuto dall’Ibiza-gate) e aveva svuotato l’Övp dal personale più consumato trasformandolo in un “partito-ibrido” che prometteva far piazza pulita della “vecchia politica”. Insomma, aveva lasciato macerie. E non è facile costruire sulle macerie: lo sa bene anche il generale Pavel.
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