Gli ex socialisti convertiti al macronismo, come Valls, sono specchietti per le allodole: questo governo guarda a destra (estrema). Borne, Darmanin, Retailleau… «È una provocazione», dice il segretario socialista. Gli Insoumis preparano già la sfiducia
Elisabeth Borne, Manuel Valls, Gérald Darmanin, Rachida Dati, Bruno Retailleau, Sébastien Lecornu e via dicendo: nei nomi e nello spirito, il nuovo governo francese nasce già più vecchio che mai.
Sono bastati tre mesi a far cadere il governo Barnier ed è servito ancor meno – una decina di giorni – per capire che il nuovo esecutivo è destinato a vita ancor più incerta. François Bayrou – il macronista ante Macron, l’aspirante presidente mai arrivato all'Eliseo – si è presentato a palazzo Matignon con la baldanza di chi vuol fare una grande impresa, «scalare l’Himalaya» (parole sue); ma già rotola giù, inciampando sugli errori suoi e su quelli (ostinatamente ripetuti) del presidente della Repubblica.
La novità è un bluff
«Questo non è un governo, è una provocazione: l’estrema destra al potere sotto la sorveglianza dell’estrema destra», ha commentato il segretario socialista Olivier Faure. Per definire il perimetro politico di questo esecutivo basta partire da un nome in entrata – Elisabeth Borne – e uno rimasto fuori: Xavier Bertrand. Combinati insieme, mostrano che Bayrou si contraddice sul nascere: non c’è nessuna reale apertura al centrosinistra sulle questioni chiave, nonostante il premier millantasse di volerne fare; e sussiste l’attitudine ad accordarsi con l’estrema destra di Marine Le Pen, a dispetto delle dichiarazioni fatte sia da Bayrou che da Macron sulla rilevanza dell’«arco repubblicano» delle forze politiche.
Il nome di Borne racconta il bluff nei confronti della sinistra: in cambio della loro non sfiducia verso l’esecutivo, i socialisti (che sono 66 in Assemblea nazionale) avevano chiesto anzitutto due cose, al di là della terza – un premier di sinistra – che Macron rifiuta di ascoltare sin dall’estate. Le richieste erano quella di non ricorrere all’articolo 49.3, che consente di far passare provvedimenti scavalcando l’aula, e inoltre di spazzar via l’odiatissima riforma delle pensioni.
Borne è l’incarnazione di entrambe le cose: è stata la prima ministra di quella impopolare riforma, e per metterla a segno ha usato la leva del 49.3 a dispetto dell’Assemblea. È stata inoltre la leader di governo quando già Macron flirtava spudoratamente con l’estrema destra, ad esempio col progetto di legge sull’immigrazione: persino il presidente della Repubblica l’aveva spinta a dimissioni sperando di salvarsi alle europee. Ora si occuperà di istruzione e ricerca da «numero due del governo»; la sua nomina rivela anche quanto sia stato difficile per Bayrou trovare nomi di peso disposti a rischiare di bruciarsi (Borne era già politicamente cotta).
Di Xavier Bertrand è rilevante invece la ragione per cui non sarà nella squadra. La dichiara lui stesso poco prima che il governo sia annunciato: «Il premier mi ha informato stamane che, a dispetto di ciò che lui stesso mi aveva proposto ieri, non è più in grado di affidarmi l’incarico di ministro della Giustizia a causa dell’opposizione del Rassemblement National». Dunque se già Barnier aveva affidato le sorti del suo governo di minoranza alla compiacenza di Le Pen, altrettanto fa Bayrou; lo si vede anche dalla riconferma di Bruno Retailleau al ministero degli Interni, dove già nello scorso mandato simboleggiava lo sconfinamento verso l’estrema destra.
Scaricato Bertrand, è Gérald Darmanin a diventare guardasigilli: Bayrou mette alla Giustizia l’ex portavoce di Nicolas Sarkozy proprio nel pieno dei processi nei suoi riguardi (una condanna definitiva è arrivata da poco e il dossier dei finanziamenti libici va in aula a gennaio).
Un governo nato vecchio
Come ministro degli Interni dell’èra Macron, Darmanin ha inoltre incarnato il volto più duro del macronismo, dalla repressione in piazza alle leggi illiberali.
Non è l’unico nome a indicare che il governo Bayrou è la continuazione del macronismo con altri mezzi (e spesso con gli stessi nomi): Sébastien Lecornu resiste indefesso al ministero della Difesa. Catherine Vautrin – anche lei come Lecornu vociferata come premier prima che fosse nominato Bayrou – resta al governo (Lavoro e Salute), così come Rachida Dati (Cultura), Jean-Noël Barrot (Europa e Affari esteri), Annie Genevard (Agricoltura e Sovranità alimentare), Agnès Pannier-Runacher (Transizione ecologica).
Di nuovi rispetto al governo Barnier, nulla? Sì, ma non nuovi in assoluto: l’ex premier hollandiano Manuel Valls (ora ministro dell’Oltremare) è un convertito al macronismo, come lo è l’ex socialista François Rebsamen (delega al Decentramento). Bernard Cazeneuve ha rispedito al mittente l’invito: a Bayrou ha detto no grazie, ma non mi va di fare il tuo secondo.
E all’Economia va Eric Lombard: una storia in banche e assicurazioni, guidava ora la Cassa depositi e prestiti. Un profilo tecnico: Bayrou ha già annunciato l’austerità come «dovere morale» e nessun politico di peso spasima per bruciarsi il consenso con misure impopolari.
C’è poi il tema della durata: quanto potrà resistere un esecutivo che esaspera persino le fragilità di quello che lo ha preceduto? Persino chi lo guida – il primo ministro – si è già reso protagonista di inciampi clamorosi, come quando è andato a presiedere il consiglio comunale di Pau invece di correre a Mayotte. Il 14 gennaio il premier farà il suo discorso di politica generale; Faure è infuriato e la France insoumise lavora già a una mozione di sfiducia.
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