La strategia della premier sul Mes? Propaganda oggi, compromesso domani: Meloni punta a oltrepassare il voto di giugno. Intanto a Bruxelles c’è chi, come Verhofstadt, si chiede come sia possibile chiamarla europeista. E pure il Ppe critica le mosse sul Mes
«Davvero è rimasto ancora qualcuno che ritenga Giorgia Meloni un’europeista malleabile?», si domanda il veterano dei liberali Guy Verhofstadt. «Sono deluso», ammette Markus Ferber, che per i popolari europei coordina la commissione economica all’Europarlamento.
E il bello è che le forze che compongono il governo Meloni continuano a ripetere, in un coro sincronizzato, che il no alla ratifica della riforma del Mes non isolerà l’Italia né screditerà l’esecutivo in Ue.
Anche questo mercoledì, interpellato da Domani sul punto, il capodelegazione di Fratelli d’Italia in Ue, Carlo Fidanza, ha ribadito che «non mi risulta nessun contraccolpo per ora».
La chiave di lettura
A prima vista, la versione rassicurante meloniana pare lunare: basta consultare le opportune fonti europee per registrare gli strali contro Meloni e la mancata ratifica. Se ne trovano anche tra i popolari europei così cari alla premier.
Ma c’è una spiegazione. Costringendo Fratelli d’Italia e la Lega al voto sulla riforma del Mes, l’opposizione li ha anche liberati dal problema fino alle europee. La fiducia di FdI è riposta nell’operazione tattica che permetterà alle destre di barcamenarsi tra campagna elettorale prima e compromesso sul Mes poi.
Bruxelles e le capitali chiave abbozzeranno per un semplice motivo: preferiscono concedere a Meloni le mosse di propaganda – dai migranti al pasticcio Mes – ma avere una premier cedevole su tutto il resto, e cioè quel che fa la differenza, dagli aiuti di stato al Patto di stabilità.
«Meloni è irresponsabile»
«La mia opinione su Meloni dopo il no al Mes? Guardi il mio tweet...». L’ex premier belga Guy Verhofstadt, eurodeputato liberale e fine conoscitore della politica italiana, ha deciso di usare una emoji che ricorda l’urlo di Munch per descrivere il suo stato d’animo dopo il no dell’aula alla riforma; e ha esternato la sua allerta. Il fatto che Meloni e Salvini votino contro il Mes è «incredibilmente irresponsabile» per Verhofstadt, che chiede provocatoriamente se pensino «che l’Italia è troppo grande per fallire».
La mossa della maggioranza «mette in pericolo la stabilità dell’intera eurozona», dice il liberale, che da federalista europeo lancia l’affondo finale: «Svanisce del tutto quell’illusione che Meloni sia un’europeista con la quale si può negoziare».
In realtà c’è chi contesta quell’idea dall’esordio del governo, e non si tratta solo dell’opposizione, ma anche di chi orienta l’opinione pubblica internazionale.
Questione di credibilità
Gli attacchi del governo ai media liberi (e a Domani) avevano fatto dire già a marzo a Gideon Rachman del Financial Times che «forse ha parlato troppo presto chi in Ue crede che da Meloni non ci sia nulla da temere».
Oltre ai diritti – che si tratti di libera informazione o di diritti Lgbt – il versante economico è da mesi ormai il fianco scoperto della premier a livello europeo. «La tassa sulle banche è disastrosa e i giudizi drastici sui risultati economici del governo Meloni sono veritieri», scriveva Tony Barber sul Financial Times ad agosto.
Poi la tassa sulle banche è stata smantellata dal governo stesso, ma con la stagione seguente è arrivata la nuova stroncatura: «I piani di bilancio di Meloni sono irresponsabili», denunciava in autunno l’Economist preconizzando un «Meloni-drama».
Equilibri europei
«Sono deluso per il no dell’aula sulla riforma del Mes: significa che l'intera riforma è ora ferma. Eppure soprattutto all’Italia conviene un Mes riformato. Ma a questo punto prima delle europee non può esserci alcuna ulteriore discussione su un nuovo Mes». Così risponde a Domani il falco tedesco Markus Ferber, che rappresenta il Ppe nella commissione Economia e finanza dell’Europarlamento, dove è eletto a ciclo continuo dal 1994.
Mentre Meloni può forse liquidare gli affondi di Verhofstadt come strali dell’opposizione, non vale altrettanto quando le critiche arrivano dal Ppe: coi popolari la premier ha avviato un’alleanza tattica dal 2021.
Vie d’uscita (con perdite)
Del resto, se fosse stato per il leader dei popolari, Manfred Weber, dopo la pandemia si sarebbe tornati alle vecchie regole rigoriste: altro che riforma del Patto. E qui si intuisce cosa stia succedendo sotto traccia.
Il governo Meloni è risultato ininfluente sui dossier economici chiave degli ultimi mesi. Prima, Berlino e Parigi hanno sbloccato gli aiuti di stato con una mossa che per Roma era svantaggiosa. Poi, i ministri delle Finanze francese e tedesco hanno concluso un accordo sulla riforma del Patto di stabilità in una cena parigina alla quale Chigi era assente.
Ma soprattutto, il governo Meloni è rimasto ai margini durante mesi di trattative. Ursula von der Leyen e Manfred Weber concedono a Meloni vittorie di propaganda su migranti e dintorni, mentre i dossier chiave li decidono altri per lei.
Sulla riforma Mes, FdI intende scavallare il voto di giugno. Il voto d’aula innescato dall’opposizione facilita il piano: passeranno sei mesi prima di un altro voto sul tema. Il governo – dicono a Domani fonti vicine alla premier – proverà a portare «con calma» all’Eurogruppo una proposta di modifica; e verosimilmente si sbloccherà il dossier, ma a campagna elettorale già svolta.
Non a caso Ferber allude a discussioni «dopo giugno» e Antonio Tajani insiste sulla riforma da approvare «con modifiche». Meloni bifronte: propaganda e compromesso.
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