Orbán era stato il primo a scommettere sulla vittoria di Trump e ora passa all’incasso. Per l’Ue l’èra trumpiana comincia a Budapest con due giorni di vertici. Gli effetti europei del cambio in Usa sono potenzialmente disgregatori, dall’estrema destra galvanizzata al dossier ucraino passando per dazi e Cina
Non spetterebbe ai capi di governo fare il tifo, ma quando mai Viktor Orbán si è attenuto alle regole? È stato il primo leader europeo a puntare tutto sulla vittoria di Donald Trump, già mesi prima ha messo in frigo lo champagne, ha trascinato l’intera Ue a Mar-a-Lago questa estate quando da presidente di turno si è fiondato in Florida sabotando l’Europa con lo slogan «Make Europe Great Again». E questo giovedì porta tutti i capi di stato e di governo europei, più il club allargato della “comunità politica” (quindi Zelensky, Starmer...), in gita allo stadio, la Puskás Aréna, per due giorni di vertici. «Gli aiuti all’Ucraina non vanno più dati per certi», Orbán rintuzza già dalla vigilia.
L’Unione europea comincia ad affrontare l’èra Trump da Budapest: la logistica è già metafora dei tempi. L’eccitazione con cui il despota ungherese ha accolto una vittoria che lui dice essere «necessaria al mondo», ma che ritiene soprattutto utile a lui (a cominciare dall’invio di un ambasciatore Usa più indulgente dell’attuale, Pressman), è solo l’effetto più visibile di un riposizionamento al quale tutta l’Ue si presta.
Sono «calorose» le congratulazioni offerte a Trump dalla presidente di Commissione europea, dalla quale non ci si può certo aspettare che controbilanci la spinta verso la destra più aggressiva: lei per prima, fiutato il vento, già da tempo lo asseconda. La famiglia popolare (dalla quale Ursula von der Leyen proviene) ancor più di prima si aggancerà a Giorgia Meloni, che dopo essersi presentata come leader «del dialogo con tutti» (dal Ppe alla destra più estrema), ora si cucirà pure la giacca di interlocutrice tra destre Ue e Usa.
Ma la portata sismica della notte elettorale americana va ben oltre gli effetti internazionali e domestici di una estrema destra galvanizzata, che pure ha a che fare col trumpismo: era stato Steve Bannon, anni fa, a spingere per l’internazionale sovranista nella convinzione che unendola si frammentasse il progetto europeista (reinterpretando: uni, divide et impera). Quel che Trump si propone di fare, dall’Ucraina alla Cina passando per la controrivoluzione climatica, sarà un enorme stress test per l’Europa; e non è affatto probabile che l’Ue ne esca più forte e unita, anzi.
Pressioni disgregatrici
Nell’immediato del trionfo trumpiano, mentre un Emmanuel Macron in fase declinante si confrontava con un Olaf Scholz in piena crisi politica «per una Europa più forte e unita», obiettivo che questa coppia francotedesca non ha spinto con determinazione neppure quando aveva ancora il calibro politico per farlo, intanto il direttore europeo dell’Eurasia Group, Mujtaba Rahman, lanciava un sondaggio: «La risposta dell’Ue a Trump 2.0 sarà unità o frammentazione?». Una maggioranza schiacciante di addetti ai lavori ha risposto: «Frammentazione».
«Gli studiosi amano ripetere che l’integrazione europea è stata forgiata dalle crisi, ma non tutte le crisi sono produttive», dice a Domani la geografa politica Luiza Bialasiewicz dell’università Ca’ Foscari. «Sotto la coltre di slogan sull’Ue geopolitica e strategica restano le spaccature, che Trump potrà persino stimolare, su temi come gli aiuti a Kiev. Finora gli stati membri hanno già faticato a fare fronte comune sul Green Deal o la Cina. Trump frammenterà ulteriormente il consenso, magari proponendo accordi bilaterali sulla gestione delle risorse».
Certo è che la pressione sistemica sarà fortissima. Tanto per cominciare, l’alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell avverte da mesi che l’Unione deve prepararsi al fatto di dover gestire da sola il dossier Ucraina. Borrell stesso ha sperimentato il brusco addio Usa dall’Afghanistan; l’ultimo viaggio di Joe Biden a Berlino, dove ha incontrato sia Scholz che Macron, è servito anche per preparare gli europei a gestire la partita pressoché in solitaria.
Mentre è da prevedersi il via libera trumpiano alle derive dell’estrema destra israeliana e a Benjamin Netanyahu, in queste ore i diplomatici dell’Ue riflettono non solo sulle guerre con le armi, ma pure su quelle a colpi di dazi: su questo Trump rappresenta per gli europei una minaccia diretta. Come ebbe modo di dire il premier polacco Donald Tusk quando era presidente del Consiglio europeo, sotto il primo mandato di Trump, «chi ha bisogno di nemici con amici come questi?». Non a caso già da tempo il veterano della Commissione europea Valdis Dombrovskis, che ricorda i dazi del primo mandato, ragiona su quelli del Trump 2.0 e dice: «Difenderemo i nostri interessi».
Un inasprimento dello scontro tra Casa Bianca e Cina costringerebbe anche l’Ue a schierarsi, cosa che finora paesi come la Germania hanno cercato di evitare; von der Leyen da Washington aveva già proclamato il divorzio da Pechino ma i governi la hanno costretta a mitigare (dal decoupling al derisking). Oggi però le grandi imprese europee, a cominciare da quelle automobilistiche tedesche, guardano all’orizzonte trumpiano dello scontro frontale con horror vacui.
I leader europei mandano le loro congratulazioni, e se già durante il primo mandato Trump l’Ue non era in forma, adesso è ancor più difficile che trovi capacità di resistenza: ha iniziato ad arrendersi al trumpismo (al vento destrorso) già prima di questa vittoria. Intanto i sabotatori dell’integrazione europea, da Orbán a Le Pen, pregustano il sentimento di stare dalla parte vincente della storia, e c’è da scommettere che i freni inibitori alle derive autocratiche nei paesi governati dalle destre estreme cedano ulteriormente.
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