Più volte rumoreggiato e convocato all’Eliseo in questi mesi di crisi politica, dopo essere tornato a colloquio per oltre un’ora e mezza questa mattina, François Bayrou è stato appena nominato primo ministro da Emmanuel Macron. La Francia piomba all’indietro: l’Eliseo non si sposta dalle certezze di un nome fortemente ancorato al presidente.

Chi è il nuovo premier

Macronista ancor prima del macronismo, con i suoi appelli a «unire destra, sinistra e centro» lanciati già un decennio prima che Emmanuel Macron usasse questa chiave per aprirsi le porte dell’Eliseo, Bayrou ha nella sua biografia almeno due costanti: i ripetuti tentativi – sempre falliti – di arrivare all’Eliseo e la sintonia con l’attuale presidente.

Come Michel Barnier, la sua storia politica è al contempo collaudata sul piano della presenza e degli incarichi ma incompiuta e realizzata nelle sue ambizioni. Sarà anche per questo che entrambi hanno accettato di assumere la guida di un governo col rischio che sia fragile e duri poco: non hanno molto da perdere, ma hanno da guadagnare in protagonismo. 

Da quarant’anni con incarichi politici di qualche sorta (dal livello locale passando a quello europeo), guida formazioni centriste sin dagli anni Novanta, con tutte le loro evoluzioni nominali e sostanziali, assestandosi alla guida del MoDem (Mouvement démocrate) dal 2007. Intrattiene cooperazioni coi partiti centristi europei – in primis con Francesco Rutelli ai tempi della Margherita – e con Rutelli fonda il Partito democratico europeo, del quale è tuttora presidente.

Tenta più volte le presidenziali (2002, 2007, 2012), non arrivando mai a superare il 18 per cento che vale abbastanza da renderlo un possibile ago della bilancia nel 2007, quando però decide al secondo turno di non schierarsi per Nicolas Sarkozy (nel frattempo Ségolène Royal fa promesse alla sua formazione); sarà anche per questo che a metà settimana si è rumoreggiato che Sarkozy, tuttora capace di influenzare Macron, avesse provato a osteggiarne la nomina.

Ma è il 2017 l’anno chiave per comprendere perché Bayrou sia arrivato oggi all’incarico: in quell’anno, nel quale il macronismo affronta la sua fase ascendente ed Emmanuel Macron concorre per vincere a presidente, lui decide di non correre alle presidenziali e gli propone un accordo per non disperdere i voti; una convergenza, in sintesi. Macron accetta, e divenuto lui presidente, François Bayrou è promosso a ministro della Giustizia.

Dura poco, perché a seguito di uno scandalo giudiziario (funzionari di MoDem retribuiti attraverso impieghi fittizi come assistenti parlamentari) è costretto a dimettersi. Ma resta legato a doppio filo al presidente, ed è anche in virtù di questo sodalizio politico che nel 2020 è posto alla direzione dell’”alto commissariato generale al piano”, laddove il piano è quello di investimenti, con France 2030 battezzato da Macron come il volano per «fare della Francia una grande nazione di innovazione». 

Le sponde a destra e sinistra

«Non sarebbe una buona scelta» nominare Bayrou, aveva detto davanti alle telecamere il segretario socialista Olivier Faure: in questa fase il suo partito ha giustificato la riapertura del dialogo con l’Eliseo in nome della richiesta di un premier di sinistra. «Non può essere Bayrou», aveva detto quindi, segnalando anche che il suo nome avrebbe dato «un segnale di continuità con ciò che lo ha preceduto» e con il macronismo.

Ma affermando anche che «il dialogo resta possibile», Faure aveva fatto intendere la sottile differenza tra prender parte a un’esperienza e fare un patto tacito per non boicottarla. Del resto è di questo – di un «accordo di non sfiducia» – che nelle scorse settimane i socialisti hanno discusso, come pure gli ecologisti e ancor più apertamente i comunisti, il cui leader Fabien Roussel è arrivato a dire che «un premier di sinistra sarebbe preferibile ma non indispensabile» perché il suo partito lo appoggi.

Nei giorni precedenti la nomina, Faure ha fatto circolare che l’accordo di non sfiducia non varrebbe per un premier non di sinistra, né tantomeno per Bayrou, ma Macron è già riuscito nell’obiettivo al quale puntava da tempo, ovvero spaccare l’unione a sinistra. Proprio sull’apertura al dialogo da parte dei socialisti (e con toni diversi anche di ecologisti e comunisti) si è consumata la rottura con la France insoumise, il cui fondatore Jean-Luc Mélenchon punta invece sulla rottura col macronismo e sull’orizzonte delle presidenziali anticipate. Uniti sulla sfiducia a Barnier, «siamo disallineati sul futuro», aveva segnalato Faure prima ancora che la mozione di censura fosse votata. 

Nei giorni che hanno preceduto la nomina, dopo aver incontrato tutti tranne gli insoumis e il Rassemblement National, Emmanuel Macron aveva segnalato che non sussistesse una composizione governativa diversa da quella del precedente esecutivo; Barnier era dichiaratamente supportato da macroniani e repubblicani, ma si appoggiava (finché è durata) sulla tolleranza di Le Pen. I rapporti tra quest’ultima e Bayrou sono dialoganti: si pensi che il premier designato le aveva dato la sua firma – il «parrainage» – perché lei potesse accedere alle ultime presidenziali, e più di recente ha auspicato che gli scandali giudiziari non le impediscano di concorrere alle prossime. I due sono accomunati dall’aspirazione a trasformare il sistema elettorale in proporzionale, e il Rassemblement «non sfiducerà a priori».

Nel caso del nuovo governo, Macron potrà contare anche sulla tolleranza di parte del Fronte popolare, ormai fratturato al suo interno? Gli eletti socialisti sono 66 (5 in meno degli insoums, ma tutti sono stati eletti con il cartello del Fronte), e chi ha fatto i calcoli ne ha concluso che sommando a questi voti quelli di area macroniana e repubblicana, Liot incluso, si potrebbe persino puntare alla maggioranza assoluta. L’Eliseo ne guadagnerebbe di disgregare una sinistra che unita è stata capace di primeggiare alle ultime elezioni e che potrebbe avere ambizioni alle prossime presidenziali. Cosa guadagnino i socialisti, resta da capire.

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