Questo martedì pomeriggio Ursula von der Leyen è corsa all’Europarlamento per continuare a negoziare il “pacchetto”: non soltanto quella del meloniano Raffaele Fitto, ma l’approvazione di tutti i vicepresidenti designati è in stallo.

Eppure nessuno di loro rischia davvero di saltare. I sei – tra i quali la socialista Teresa Ribera e il macroniano Stéphane Séjourné – aspettano semplicemente che il cubo di Rubik dei ricatti reciproci tra i gruppi si disponga in un modo che per tutti torna, attraverso quello che nei corridoi brussellesi in queste ore viene chiamato il «package deal», l’accordo su tutto il pacchetto.

Si era già capito che queste audizioni della futura Commissione von der Leyen II sarebbero state come una commedia shakespeariana: Much Ado About Nothing, molto rumore per nulla. Ma la giornata di martedì – cominciata di prima mattina con l’audizione di Fitto e Kaja Kallas (liberale estone designata ad alta rappresentante), proseguita con la socialista romena Roxana Mînzatu e Séjourné, poi fino a ora tarda con Ribera e la popolare finlandese Henna Virkkunen – è apparsa a tutti gli effetti un teatro politico.

L’ex capogruppo dei Conservatori, nonché ministro, Fitto – sulla cui vicepresidenza esecutiva precipitano tutte le tensioni per lo slittamento a destra di von der Leyen, e sulla cui figura Meloni ha puntato già tre anni fa proprio per stringere i rapporti coi Popolari europei – se ne stava lì in commissione Sviluppo regionale ad ammirare «con grande emozione» il ritratto di Alcide De Gasperi affisso nella sala, a ribadire che i commissari non rispondono a partiti e governi; schivava ogni questione politicamente imbarazzante, citava i padri fondatori, esibiva conoscenza di trattati e codici di condotta, indossava insomma il costume del perfetto conoscitore della macchina brussellese rispettoso di tutte le posizioni e pronto a recepirle.

Nel frattempo i tre gruppi politici popolare, socialista e liberale, che prima del deragliamento del Ppe si definivano «la maggioranza europeista», hanno tenuto in stallo il normale scorrimento delle audizioni sull’onda di affondi, ricatti reciproci e nodi irrisolti, per poi poter far passare con l’«accordo di pacchetto» in mano tutti i nomi in simultanea nei giorni seguenti.

Ecco perché la presidente di Commissione è accorsa: nessun ragionamento su deleghe e portafogli può passare senza che la presidente accentratrice lo sottoscriva, così come il modo in cui le audizioni si concluderanno definisce anche il voto finale della plenaria sulla nuova squadra con von der Leyen alla guida. «In plenaria voteremo a favore», ha detto il capodelegazione di Fratelli d’Italia all’Europarlamento, Carlo Fidanza: recita appunto la parte costruttiva, come tutta Ecr ha fatto in corso di audizioni, puntando a blindare Fitto e integrare gradualmente la maggioranza, a traino Ppe.

Con la gestione di Coesione e riforme, ma soprattutto con la vicepresidenza esecutiva che dà un piglio di coordinamento (anche se in questo caso non pesante come in altri), Fitto è diventato il simbolo di questa integrazione.

Fitto e le trattative

Ecco perché ha fatto di tutto, nella sua audizione, per disinnescare mine: si è detto leale allo stato di diritto dopo che come capogruppo di Ecr aveva spalleggiato Viktor Orbán, si è proclamato difensore dell’integrazione europea dopo che i Conservatori la hanno boicottata, ha mostrato di digerire la transizione ecologica; a chi gli chiedeva conto di riforme accentratrici sfoderava buoni rapporti con comuni e regioni, eurodeputati dem compresi. Lello Topo (Pd) è parso soddisfatto, mentre dai Verdi e dalla Left (che include i Cinque stelle) arrivavano affondi.

I più battaglieri contro la vicepresidenza a Fitto sono i Verdi europei. D’estate hanno votato per la rielezione di von der Leyen (FdI no), con l’ambizione di fare da supporto alla maggioranza tradizionale, offrendosi come alternativa a Meloni. «Per noi il punto è Fitto: abbiamo fatto presente dall’inizio a von der Leyen che quella vicepresidenza esecutiva è tossica», dice a Domani il capogruppo green, Bas Eickhout. «Sta alla presidente infine decidere se mantenerla, ma la riterremmo una sua precisa scelta politica: un cambio di coalizione, che andava dal Ppe ai Verdi e ora invece includerebbe Ecr. Vale la pena spaccare deliberatamente l’arco progressista per Fitto? Le consiglio di no», conclude Eickhout preparandosi a negoziati «pure di notte»; von der Leyen ha cominciato nel pomeriggio coi bilaterali.

Già mesi fa, i Verdi hanno avanzato il piano di sabotare in audizione le deleghe del meloniano. Tra i socialisti, c’è chi ha dato spago, pure tra gli italiani (Brando Benifei ad esempio), anche se il capodelegazione Pd Nicola Zingaretti è cauto a non apparire come il sabotatore nazionale.

Non basta a prevenire gli affondi della premier: mentre Fitto diceva che da commissario sarà sganciato da governi e partiti, Meloni è andata all’attacco in serata. «Inconcepibile che esponenti Pd chiedano di togliere al commissario italiano designato la vicepresidenza. Vorrei sapere dalla segretaria Pd se è la sua posizione ufficiale».

Il nodo è fin dove sia disposta a spingersi la capogruppo socialista Iratxe García Pérez, coi Popolari pronti a prender di mira Ribera: ecco perché è passata la logica del pacchetto, che tiene in ostaggio non solo i vice ma le audizioni stesse: da simbolo di trasparenza si trasformano in liturgia di un’Europa al bivio.

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