Lo scambio di politiche effusioni con Elon Musk, quel modo di ricalibrare gli equilibri in caso di vittoria di Donald Trump, il governo che si aggrappa al vecchio mondo dei combustibili fossili e, se non bastasse, anche la resa ai giganti tech americani proprio mentre l’Unione europea sta cercando di strutturare una propria sovranità tecnologica. Quella di Giorgia Meloni, in trasferta a New York, non è soltanto un’agenda americana. È anche un’agenda antieuropea. Si tratta di una strategia simile a quella portata avanti in precedenza dagli ultraconservatori polacchi del Pis, gli alleati meloniani (seppur eternamente litigiosi).

Le controriforme meloniane

L’agenda antieuropea di Meloni si vede anzitutto sulle due grandi transizioni che – a detta della stessa presidente della Commissione europea – dovrebbero orientare l’intero indirizzo politico dell’Unione europea. «Transizioni gemelle», così le chiama Ursula von der Leyen, sottolineando l’urgenza di «decarbonizzare».

Per tenere insieme verdi e destre, la sua strategia di uscita è quella di riformulare il Green deal in termini di strategia industriale: il “clean industrial act” è il nuovo verbo, e la Bibbia è l’agenda Draghi, che invita a sfruttare il potenziale dell’Ue in termini di energia pulita.

Peccato che la prima grande battaglia politica del governo Meloni quest’autunno vada nella direzione opposta: invece di una nuova strategia industriale, la solita crociata per i motori a combustione, per i quali l’Ue prevede l’addio entro il 2035. Domani, al Consiglio Ue sulla competitività, il ministro Adolfo Urso andrà a chiedere di rivedere il piano già nel 2025, e su questo trova d’accordo la Germania. Del resto in Ue il governo tedesco – a differenza di quello italiano – qualcosa l’ha già ottenuta, e cioè tolleranza per gli e-fuel (i carburanti sintetici), diversamente da quello italiano (dato che la richiesta per i biocarburanti era rimasta invece fuori dall’accordo).

Nel frattempo la coalizione Meloni, sia da Roma sia da Bruxelles, continua a boicottare la transizione ecologica, salvo poi bussare alle porte di Bruxelles per chiedere fondi emergenziali quando si verifica l’ennesima alluvione (per l’Emilia-Romagna di recente è già successo due volte: prima l’opposizione ai piani verdi europei poi, di fronte agli eventi estremi, la richiesta di soldi Ue).

Meloni contro la sovranità

Se possibile ancor più paradossale – rispetto ai proclami meloniani sulla «sovranità» – è la rincorsa dei colossi tech Usa proprio mentre l’Ue prova a rilanciare l’idea di una propria sovranità tecnologica.

«Dobbiamo sfruttare i nostri punti di forza per avere leadership nelle tecnologie strategiche, stabilire gli asset per la sovranità tecnologica» e dare una spinta europea all’intelligenza artificiale, scrive von der Leyen nella lettera di missione per Henna Virkkunen, che da vicepresidente esecutiva dovrebbe occuparsene.

Eppure, anche se Meloni è nel coro di chi predica la «competitività» europea, quando si tratta di digitale la premier non sembra dare priorità a campioni e cordate europee, ma semmai volonterosa di blandire i colossi americani. Nel suo viaggio in Usa ha voluto incontrare i vertici di aziende come Google-Alphabet, oltre che Sam Altman che sta lavorando a una «super intelligenza artificiale».

E poi c’è Elon Musk, che la premier ha ostinatamente voluto alla premiazione all’Atlantic Council. Ciò nonostante Musk abbia interessi economici diretti, e contenziosi aperti, in Unione europea: lunga è la lista di reclami per violazione della privacy, liti con la Commissione Ue (compresi insulti di Musk al commissario incaricato) per le violazioni del quadro normativo europeo, e così via.

Ci sarebbero poi i recenti insulti di Musk alla procura di Palermo, e il suo ruolo di aizzapopolo digitale a favore dell’estrema destra.

Musk, Trump, i precedenti

Ma del resto è anche e proprio per le sue simpatie verso Donald Trump, che Meloni ha tenuto a ricevere da lui il premio: si tratta per la premier di tenersi aperto un varco di opportunità qualora i dem escano sconfitti a novembre.

In questi anni Fratelli d’Italia ha costruito una rete di rapporti che attraversa think tank atlantici, partiti e ambienti legati agli Stati Uniti, con tanto di «svolta conservatrice» finalizzata proprio a dare un patentino di governabilità al partito e alla sua leader. Ma dietro il “Washington washing” di FdI, e cioè dietro il tentativo di rassicurare gli osservatori internazionali con l’ombrello di Washington, c’è il mondo trumpiano che l’Ue osserva con timore.

A ben guardare, non c’è niente di innovativo nella strategia americana di Meloni: prima di lei, erano stati i suoi alleati ultraconservatori polacchi a ripararsi sotto l’ombrello americano (con il presidente Andrzej Duda a fare da pontiere) quando a Bruxelles le derive antidemocratiche del Pis facevano aggrottare sopracciglia.

Anche i rapporti con Big Tech hanno analogie: durante il governo Morawiecki, in ragione di fisco compiacente e salari sacrificati, corporation come Google hanno piazzato bandierine in Polonia, trasformando Varsavia in un hub. «Ma come, non dovevamo difendere il patriottismo?», è arrivato a dire persino un alleato del Pis, qualche anno fa, quando è apparso chiaro che il nuovo “ordine polacco” (il “polski ład”) poteva sfavorire le imprese nazionali.

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