Questo giovedì sera i capi di stato e di governo hanno approvato il pacchetto di nomine Ue: Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, António Costa per il Consiglio, Kaja Kallas come alto rappresentante dell’Unione europea. Giorgia Meloni ha preferito astenersi su von der Leyen ed esprimere contrarietà sugli altri due nomi. Oltre alla posizione divergente della premier italiana si è distinto per i suoi attacchi all’accordo Viktor Orbán.

Il caso Meloni

Quando i leader europei arrivano a Bruxelles per il summit che deve ufficializzare le nomine Ue, non sono i nomi di von der Leyen, Costa e Kallas a finire sulla bocca di tutti – visto che quelli sono stati già blindati politicamente prima del summit – ma semmai il nome di Giorgia Meloni, che a suo stesso dire è l’esclusa dalle decisioni. Dopo la «conventio ad excludendum» in cui Popolari, Socialisti e Liberali si sono accordati sulle presidenze di Commissione, Consiglio, e sull’alto rappresentante Ue senza di lei, questo è il summit delle pacche sulle spalle diplomatiche e consolatorie.

Mentre il Ppe si affanna a ricucire almeno simbolicamente con Meloni, almeno simbolicamente i suoi sodali di sempre vanno allo strappo. L’ex premier polacco Mateusz Morawiecki arriva in pieno vertice a dichiarare ciò che Domani aveva riferito il giorno prima: nei Conservatori europei è ormai crisi politica conclamata.

L’appeasement del Ppe

Il primo a dare la linea è il leader dei Popolari europei Manfred Weber. Arriva all’hotel Sofitel di Place Jourdan per il pre vertice del Ppe e prima ancora di entrare manda messaggi alla premier, con la quale rivendica di essere stato il primo ad avviare una cooperazione. «L’Italia è un membro del G7», dice stando attento così ad evocare il recente evento pugliese, ed è «uno dei paesi leader nell’Unione europea», quindi è «cruciale includere l’Italia nel processo» di selezione degli incarichi.

Ancor più rilevanti politicamente sono le parole che arrivano un paio di ore dopo da Donald Tusk, che nel Ppe è il contraltare di Weber. Quest’ultimo è da sempre il normalizzatore dell’estrema destra italiana e nelle scorse settimane ha persistentemente ribadito alla stampa tedesca – lui è bavarese – che sui temi bisognerà cooperare con Meloni, a differenza dei Verdi. Una tattica che gli è servita a blindare le posizioni negoziali dei Popolari, ma che potrà essere riscattata dalla premier solo nel medio periodo, e cioè quando all’Europarlamento Weber la utilizzerà come sponda per dirottare a destra l’agenda europarlamentare. Al momento però ai socialisti interessava vergare un accordo senza la macchia del nome di Meloni sopra, ed è proprio per questo che anzitutto fonti tedesche hanno fatto trapelare a inizio settimana che il patto a tre (socialisti, popolari e liberali) sui tre nomi era già chiuso. «Sapevo che con Tusk come negoziatore del Ppe un coinvolgimento di Ecr in maggioranza non sarebbe stato concepibile», aveva non a caso commentato con Domani martedì la capolista alle europee dell’Spd di Scholz, la vicepresidente dell’Europarlamento Katarina Barley.

Il premier polacco è riuscito a sorpassare alle europee gli ultraconservatori del Pis che almeno finora hanno condiviso il gruppo con Meloni, e l’ampiezza della sua delegazione europarlamentare è il vero possibile contraltare di una deriva troppo destrorsa di Weber. Ma questo giovedì pure Tusk ha seguito la strategia comune, e cioè quella dell’appeasement con il governo italiano. «Una cosa dev’essere chiara», ha detto davanti alla “lanterna” del Consiglio europeo. «Nessuno rispetta la premier Meloni e l’Italia più di me. Si tratta di un equivoco: a volte serve una piattaforma per facilitare il processo, ed essendo i tre gruppi corposi dell’Europarlamento lo abbiamo fatto, ma l’intenzione era di facilitare il processo per avere una posizione comune. Non c’è Europa senza Italia e non c’è decisione senza Meloni». Parole quasi identiche ha pronunciato poi il premier greco Kyriakos Mītsotakīs, negoziatore del Ppe in coppia con Tusk, e ala destra del Ppe.

I passi seguenti

Come sa bene Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento eletta coi voti dei Conservatori, «coinvolgere Meloni aiuterà ad avere una maggioranza in Europarlamento»: aiutare la premier a rifarsi la faccia serve a puntellare il voto d’aula per von der Leyen, perché non basta la nomina dei leader, bisogna assicurarsi voti di eurodeputati a favore nonostante i franchi tiratori. Subito dopo lo smacco dell’accordo precoce, «non mi pare ci siano le condizioni per votare von der Leyen in Europarlamento», aveva detto il capogruppo meloniano di Ecr Nicola Procaccini.

Antonio Tajani che fa da mediatore – vicepremier di Meloni ma pur sempre Ppe – ha esternato non a caso sia di essere favorevole all’accordo sulle nomine (per corroborare il Ppe) sia che si dovrebbe aprire a Ecr (pensando alla premier). Poi è tornato a invocare «una vicepresidenza di Commissione e un portafoglio di rilievo».

Una ricostruzione del Financial Times ha increspato gli sforzi diplomatici alludendo a una contesa tra Meloni e Macron sullo stesso portafoglio, ma fonti di Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese, smentiscono a Domani: «Non si vede una sovrapposizione. Il punto cruciale della richiesta della Francia è quello di seguire gli interessi industriali d’Europa, con una flessibilità sul perimetro esatto del portafoglio».

Pace quindi? Non in casa dei Conservatori: Morawiecki ha detto che il Pis potrebbe lasciare Ecr e raggiungere il premier ungherese in un suo nuovo gruppo. Balázs Orbán, braccio destro del premier ungherese, conferma che Viktor Orbán sta provando a formare un nuovo gruppo e che i negoziati sono in corso. Pis e Fidesz sono rivoltosi per la linea pro Ppe di Meloni, e sia che vogliano alzare la posta, sia che vogliano consumare una rivalsa, certo stanno sconfessando la promessa elettorale meloniana: le destre sono più frammentate di prima, e al momento è l’Europa a star cambiando Giorgia.

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