A cosa è servito davvero il dibattito con Viktor Orbán questo mercoledì all’Europarlamento? Più che a smascherare lui, a smascherare gli altri. Dai posizionamenti del resto delle destre si può cogliere infatti il supporto reale del quale l’autocrate tuttora gode.

Il partito di Giorgia Meloni continua a spalleggiarlo: fa eccezione solo nella misura in cui deve ribadire il proprio posizionamento pro Kiev; ma Orbán resta «un amico» e gli si deve «rispetto», a detta dei meloniani all’Europarlamento. L’unico reale fastidio arriva per l’autocrate dai vecchi amici, ex compagni di gruppo, cristianodemocratici tedeschi, ora che il bavarese Manfred Weber – leader del Ppe – gli sbatte in faccia: «Péter Magyar è il futuro dell’Ungheria».

Magyar, leader di Tisza, è il nuovo competitor di Orbán, lo sfida da destra, lo insegue con solo sei punti di distanza nei sondaggi, ed è entrato nei Popolari, l’ex famiglia politica del premier, che a lungo ha avuto per lui condiscendenza in nome della cooperazione con le manifatture tedesche, e che lo rintuzza con la minaccia dell’alternativa.

«Gli investitori stranieri guadagnano con l’Ungheria. Offriteci un buon accordo e possiamo collaborare», dice non a caso Orbán, abituato com’è, dai tempi di Merkel, ai compromessi con la Germania. «Lei, Weber, dice che sono isolato in Ue, ma sono stato ricevuto da Scholz, da Meloni...».

Presidente di turno

La presidenza di turno ungherese era stata già messa a battesimo in estate con un viaggio al Cremlino, una trasferta cinese e una visita a Trump. Questo mercoledì si trattava di presentarla all’Europarlamento, e Orbán si è posto con l’attitudine con cui da sempre affronta le battaglie in sede europea: dopo che ha forzato la mano, la tende quanto basta per ricavarne un compromesso che gli procuri vantaggio.

La mano era stata forzata a Mosca, così a Strasburgo l’autocrate ha recitato la parte del dialogante, proponendo patti sulla competitività e summit su Schengen. Pure chi più di una volta è sceso a compromessi con lui – come Ursula von der Leyen che a dicembre gli ha scongelato dieci miliardi – aveva la sua parte da svolgere; così questo mercoledì la presidente di Commissione Ue ha fatto la dura pro Kiev, contro i visti concessi dall’Ungheria ai russi, contro la retorica filorussa del premier.

Ha pure lamentato «le tassazioni contro le imprese europee», ricordando implicitamente che i rapporti economici tra Germania e Ungheria sono da sempre la principale garanzia di accordo per Orbán. Von der Leyen non ha comunque affrontato direttamente il viaggio del presidente di turno al Cremlino, né ha detto una parola di reprimenda sulle derive antidemocratiche del despota; non ha parlato di democrazia, e ha nominato la «rule of law» solo come generico buon proposito universale.

Quando Orbán ha finito di parlare – con le sue uscite sui rifugiati che «portano omofobia, antisemitismo e violenza contro le donne» o con quei suoi slogan trumpiani: «Make Europe great again» – tra gli eurodeputati a sinistra è partito un “Bella ciao!”, stroncato dalla presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola, eletta due volte dal 2022 col supporto di destre estreme. Metsola ha commentato: «Questa non è la “Casa di carta!»; e dire che conosce bene l’Italia, verosimilmente anche i canti di resistenza.

Meloni e le destre «amiche»

Il dibattito durato ore in aula – gli scambi di accuse contro l’autocrate, lo scontro dialettico, persino gli affondi di Orbán in risposta a Ilaria Salis – era da mettere in conto: il premier ungherese ha ascoltato con aria annoiata gli affondi dell’arco progressista, derubricando ogni puntuale accusa su corruzione, derive illiberali e filorusse a «propaganda della sinistra finanziata da Soros».

Orbán è abituato a giocare con le parole e a superare gli affondi senza imbarazzo. Lo fa sin da giovane; nei primi anni Novanta, quando un lungimirante intellettuale ungherese liberale osò chiedergli in pubblico dei soldi di partito girati da Orbán alla propria famiglia, lui con faccia di gomma rispose: «C’è forse un processo?».

Come ha avuto modo di ricordare la nuova relatrice dell’Europarlamento sullo stato di diritto in Ungheria, Tineke Strik, né la Commissione né i governi stanno usando pienamente le leve a loro disposizione; «La Commissione dovrebbe tenere i fondi Ue congelati e il Consiglio attivare finalmente l’articolo 7». Orbán ha ascoltato annoiato, svegliato dall’irritazione quando Weber gli ha lanciato Magyar contro: «Lui la sconfiggerà, come sono stati sconfitti Babiš e il Pis».

Il leader del Ppe intende segnare un perimetro: da una parte dialoga con l’estrema destra meloniana, dall’altra si dichiara l’unico argine coi filorussi come Orbán (il cui partito satellite Kdnp è restato nei Popolari fino a questa estate). Per il premier, il posizionamento del partito che probabilmente tornerà al governo in Germania ha un peso; così ha colpito Weber ricordandogli che non è riuscito a diventare presidente della Commissione. Nel frattempo i Patrioti applaudivano durante gli interventi orbaniani, come a riempire col rumore il senso di isolamento.

Poi sono intervenuti i meloniani, ricordando con le loro prese di posizione che il sodalizio tra la premier sedicente moderata e il despota non si è mai interrotto. «Ho ascoltato il suo programma con l'attenzione e il rispetto che si deve a lei», ha detto il capodelegazione di FdI Carlo Fidanza: «Sono molti i punti su cui siamo d’accordo; non lo siamo stati sulla questione russo-ucraina non perché io la ritenga un pericoloso agente al soldo di Putin: basterebbe conoscere la sua storia per sapere che non è possibile».

E il capogruppo meloniano dei Conservatori europei, Nicola Procaccini, sulla stessa linea: «Condividiamo diversi obiettivi del suo programma, e abbiamo un comune avversario interno, il furore progressista. Devo dirle anche quel che non condividiamo, perché lei non parte consapevole che la Russia sia pericolosa». Tutto questo detto comunque «da amico».

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