- Tra gli intellettuali c’è chi ha riso di lui, tra i sondaggisti chi lo dava per perso, tra gli osservatori chi lo ha scambiato per il populista del villaggio baciato dalla fortuna. Péter Márki-Zay è tutto tranne questo.
- Ha costruito con sapienza, e coi viaggi negli Usa, il suo successo in queste primarie dell’opposizione unita. Nel 2018 strappò a Fidesz una roccaforte, nel 2019 era a Washington a tessere rapporti politici, dagli americani ha appreso anche la strategia comunicativa.
- Lo stile populista e anticorruzione ha funzionato alle primarie. Gli argomenti da conservatore, ed ex elettore di Fidesz, possono rubare elettori a Orbán nella sfida di aprile. Il premier lo sa; e lo teme.
Tra gli intellettuali c’è chi ha riso di lui, tra i sondaggisti chi gli assegnava appena un cinque per cento, tra gli osservatori esteri chi lo ha scambiato per il populista del villaggio baciato dalla fortuna. Invece Péter Márki-Zay è tutto tranne questo. Ha costruito con sapienza, e con qualche viaggio a Washington, il suo successo in queste inedite primarie nazionali ungheresi indette dall’opposizione unita. Unita contro Viktor Orbán, a cui l’intelligenza politica non manca e che infatti ora dà segni di agitazione. Da quando domenica i sei partiti di opposizione hanno decretato Márki-Zay vincitore con il 57 per cento del secondo turno di primarie, i media filogovernativi non fanno che attaccarlo. Il punto è proprio che non è semplice. «Sono quello che ha più probabilità di battere il premier. Tutta la sua campagna di discredito dell’opposizione, di fronte a me, è vana», dice Márki-Zay. L’anti Orbán, infatti, ha caratteristiche tali da poter piacere anche agli elettori orbaniani: ex elettore di Fidesz, conservatore, di centrodestra, cattolico, padre di sette figli, capace di parlare anche all’Ungheria dei piccoli centri rurali. Allo stesso tempo outsider, carismatico, con un piglio anti corruzione e l’argomento ritrovato della speranza, libero dai pesi della vecchia politica e dei suoi politicanti, capace di entusiasmare i giovani e di battere la rivale Klára Dobrev pure a Buda, cuore della capitale. E poi con solide connessioni internazionali, anzitutto negli Stati Uniti, dove prima ha lavorato e poi ha intrecciato rapporti anche da politico. Infine «filo Ue: per me questa è la prima cosa». Vuole pure portare l’Ungheria dentro l’Eurozona. Racconta che ha capito di non poter essere più un elettore orbaniano «quando lui ha incontrato Putin». Non c’è da stupirsi che pochi giorni prima della vittoria una decina di ambasciatori di paesi occidentali abbia pranzato con lui.
Costruzione di un fenomeno
Non è la prima volta che Márki-Zay sorprende tutti. Nel 2018 ha strappato il governo di Hódmezővásárhely, sua cittadina natale nel sud est, a Fidesz, di cui era considerata roccaforte. Ci è riuscito proprio facendo convergere su di sé tutta l’opposizione. Strategia replicata con successo l’anno seguente – con tanto di primarie cittadine – da Gergely Karácsony, sindaco di Budapest. Karácsony era candidato a queste primarie nazionali, ma dopo il primo turno si è ritirato per appoggiare l’attuale vincitore.
Nato da una famiglia bene nell’Ungheria rurale, Márki-Zay ha studiato economia, marketing, ingegneria, ha un dottorato e parla diverse lingue. A 32 anni è partito per il Canada e ha cominciato la carriera vendendo porta a porta. Due anni e mezzo dopo, la corporation CarQuest lo ha voluto negli Stati Uniti. Nel 2009, quando è tornato in Ungheria, i giornali locali lo hanno accolto come un fenomeno: «La famiglia torna a casa con sette bambini». All’epoca lui raccontava ammirato di come gli americani siano riusciti a reagire alla crisi «tagliando la spesa: non si aspettano aiuti dal governo». In quella storia c’era già tutto il suo bagaglio personale e ideologico: intraprendente, conservatore, con una preferenza per il libero mercato.
Dal villaggio a Washington
Ci sono già anche i legami con gli Usa, e dal 2019 è chiaro che non sono più solo di lavoro. A maggio di due anni fa, poco prima che Donald Trump riceva il premier ungherese, a Washington arriva proprio lui, il sindaco. E rassicura che «l’Ungheria appartiene all’occidente. Deve cercare un legame più stretto con l’Ue e un buon rapporto con gli Usa». Siamo nella Nato, va a dire lui, ed è questo che conta, «non Cina e Russia», con cui invece il premier fa affari. Oggi Márki-Zay, che dagli americani ha imparato anche la strategia comunicativa, declina gli argomenti pensando alla sfida a Orbán: rimane neoliberista, ma sa che gli aumenti delle pensioni e gli aiuti alle famiglie usati da Fidesz come arma elettorale non vanno rinnegati se vuol vincere; professa il suo essere cattolico ma dice pure che «una cosa sono le mie posizioni da credente, una cosa è lo stato secolarizzato: i diritti devono essere gli stessi a prescindere dagli orientamenti sessuali», basta «campagne di odio» anti Lgbt. Tutto questo Márki-Zay sceglie di dirlo con uno stile populista e a tratti sfrontato. «Sappiamo che il figlio di Orbán è gay» dice portando i pettegolezzi all’interno della campagna elettorale. Non teme la sfida.
Quale opposizione
«Márki-Zay ha fatto l’outsider delle primarie», dice lo storico ungherese Péter Techet, che si divide tra l’università di Friburgo e quella di Genova. «Ha puntato soprattutto sulla lotta alla corruzione, utilizzando uno stile retorico populista. Ha mobilitato le emozioni e, come lui stesso ha detto, ha preso esempio dalla retorica obamiana della speranza: così facendo, è diventato una star per molti giovani». Ma non per tutti. Nóra Schultz, dell’organizzazione di sinistra Szikra, non tradirà l’impegno di sostenere il vincitore ma spera che «potremo spingere da dentro per una agenda progressista. Di Márki-Zay mi preoccupa l’approccio liberista e di destra in economia». Il nuovo leader è un conservatore di centrodestra che guida un’opposizione di centrosinistra: anche se è il candidato premier, nelle primarie sono stati scelti anche i nomi per i collegi, e lì Dobrev, ben più a sinistra, è forte. «Ma non mi stupirei se Márki-Zay riuscisse a far crescere il suo movimento, “Ungheria di tutti”, e a spostare gli equilibri nel campo dell’opposizione: la sua campagna era condotta anche contro i partiti del suo campo», dice l’accademico Stefano Bottoni. Secondo lui, che è autore di Orbán. Un despota in Europa, dopo tanti anni di governo orbaniano «ha più chance di vittoria un leader che può parlare anche a un elettorato ormai plasmato dall’èra Orbán».
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