Le elezioni spagnole hanno bocciato l’estrema destra a cui la premier ha dato più volte il suo sostegno. Il richiamo delle radici identitarie si è trasformato in un boomerang, nel pieno della sua strategia europeista
A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. E quest’ultima rischia di costare cara a chi, come la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, continua a spalleggiare troppo vistosamente gli alleati sbagliati.
Vox, il partito della destra nazionalista spagnola, ha recato più nocumento che fortuna alla premier italiana: in vista delle elezioni politiche del 2022 si dovette smarcare da un discorso molto identitario pronunciato in spagnolo proprio ad una convention di Vox, mentre in questi giorni sconta il sostegno pubblico a un partito elettoralmente in regresso, che ha perso il suo abbrivio nella politica spagnola.
Questa lealtà ostinata a tutti i partiti conservatori, anche quelli più a destra di Fratelli d’Italia, è una trappola da cui la presidente del Consiglio non riesce a uscire. Eppure il quadro tratteggiato da Meloni in questi mesi di governo è tutt’altro che lineare, pieno di incoerenze, marce indietro, gradualità e dunque non si comprende appieno tanto sfoggio di lealtà verso partiti nazionalisti stranieri.
La Meloni di governo è un Giano bifronte e molti osservatori internazionali iniziano a chiedersi quale sia la sua vera faccia. Da un lato la maggioranza di centrodestra si è “europeizzata” con una legge di bilancio prudente, la prosecuzione del Pnrr senza strappi con la commissione, una politica estera ragionevole.
Dall’altro, però, continua il sostegno ostentato e rivendicato dalla presidente del Consiglio a partiti come Vox, PiS, Fidesz, e sparate politiche, soprattutto a mezzo dei ministri, di marca protezionista, corporativa, maldestramente identitaria.
C’è chi può vederci una cinica strategia per raccordare vincolo esterno e consenso interno, e in parte è certamente così, ma ad essa si sovrappone anche un retaggio del passato che non si è sciolto col successo repentino.
La trincea della marginalità
Dopo quasi un decennio passato da Fratelli d’Italia come piccolo partito di opposizione si è incuneata l’idea in quel partito che i compagni di lotta di quando si contava poco non possano essere abbandonati mai. Aver fatto insieme la trincea del sovranismo e dell’euroscetticismo insieme, lontani dai fasti del potere, ha saldato un vincolo politico difficile da spezzare.
E oggi, dunque, nonostante uno scenario molto diverso e con le leve del governo in mano, Fratelli d’Italia non cambia direzione con decisione, non strappa con gli alleati di sempre in Europa. Certo la tentazione c’è come dimostrano i contatti costanti tra Giorgia Meloni e Manfred Weber, capo dei popolari europei, e la nuova sintonia con Ursula von der Leyen.
Tuttavia fino a che non sarà costretta a scegliere, e potrebbe anche non accadere, la leader di Fratelli d’Italia terrà il piede in due scarpe. Troppo golosa è l’occasione nel 2024 di andare al governo dell’Unione Europea senza stravolgere al contempo la propria identità costruita in anni di opposizione. Oltre gli equilibrismi politici viene però da chiedersi quanto importi di tutto questo agli elettori.
La risposta è quasi nulla poiché davvero pochi sono gli elettori appassionati delle dinamiche politiciste dell’Unione Europea e ancora di meno sono coloro che si interessano dei risultati elettorali in altri paesi. L’impolitico elettorato della destra italiana bada ai propri interessi particolari, alle esigenze quotidiane, al concreto che si traduce in sicurezza ed economia.
La gran parte non ha nemmeno idea di cosa sia Vox e non si appassiona ai comizi in spagnolo del premier. Sul piano elettorale smarcarsi da alcuni alleati europei, o quantomeno pubblicizzare di meno la partnership, non costerebbe nulla a Fratelli d’Italia. Dunque il problema è nel partito, non al di fuori di esso. È nel nocciolo duro della dirigenza che si commettono errori di strategia.
Basterebbe invece ridurre il volume dell’esposizione nelle elezioni altrui, amministrare con maggior parsimonia l’ambizione smodata di diventare il modello della destra europea, evitare il “richiamo della foresta” del purismo identitario così da scrollarsi di dosso situazioni, come quella della campagna elettorale a favore di Vox, che generano soltanto dubbi e scetticismo non tanto verso i propri elettori quanto tra i molteplici attori del mondo politico con cui deve confrontarsi chi governa.
Infine la rigidità della fedeltà agli alleati è sempre stata dannosa in politica, dove conta soltanto la saggezza nelle scelte che si prendono senza troppi fronzoli di taglio morale. Allora sarebbe saggio che a Palazzo Chigi si rileggesse Niccolò Machiavelli che nel Principe scriveva in merito alla fedeltà verso gli alleati: "Non può [...] uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere.”
E in questo caso le “cagioni” dell’alleanza con i partiti di destra più estremisti, una volta conquistato il governo, sono oramai spente. Saprà Meloni accogliere la saggezza politica del patriota Machiavelli o preferirà invece proseguire con comizi in spagnolo ricolmi di danni collaterali?
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