- Gli afghani ammassati all’aeroporto di Kabul stanno cercando una via di fuga dal regime talebano, che li terrorizza. Eppure stando ad alcuni media europei siamo noi che abbiamo paura di loro.
- Una traiettoria collega il 2005 in cui la Francia al referendum bocciò il progetto di Costituzione europea, il 2015 della crisi dei rifugiati siriani e il 2021 dell’esodo dall’Afghanistan.
- Nel 2005 la retorica sull'idraulico polacco contribuì a minare il progetto di integrazione europea, nel 2015 la narrazione antimigranti è andata di pari passo con l'ascesa dei sovranismi. Oggi la costruzione della paura è mainstream.
Le afghane e gli afghani che si ammassano all’aeroporto internazionale di Kabul stanno cercando una via di fuga dal regime talebano, che li terrorizza. Eppure stando ad alcuni media europei siamo noi che abbiamo paura di loro.
La costruzione della paura
C’è un titolo che si ripete in molte lingue, e che con poche parole impone un universo di senso: «EU fears new wave of migration», L’Ue ha paura di una nuova ondata migratoria, questo è il Telegraph, lo stesso quotidiano in cui l’attuale premier Boris Johnson quando era corrispondente da Bruxelles lanciava le sue invettive euroscettiche. Ma non c’è bisogno di avventurarsi alla periferia dei fuoriusciti dall’Ue per trovare la stessa stringa di titolo. Politico Europe, che si trova al centro della Brussels bubble visto che racconta la politica europea da dentro le istituzioni Ue, conclude che: «Migration fears complicate Europe’s response to Afghanistan crisis»; insomma sono i timori sul fronte migratorio a complicare la risposta europea alla crisi. Non c’è da stupirsi che le testate filogovernative ungheresi, dal quotidiano Magyar Nemzet al sito Híradó della tv pubblica, rilancino la narrativa anti migranti del premier Viktor Orbán. Ma ormai l’idea del fenomeno migratorio come qualcosa da evitare – «un disastro migratorio da prevenire», lo definisce l’alto rappresentante Ue Josep Borrell – non fa parte più solo dei discorsi dell’estrema destra; ha penetrato sia le scelte che la semantica. Ormai la Cdu in Germania parla la stessa lingua dell’estrema destra di Afd («Non bisogna ripetere gli errori del 2015») e anche sui media la paura è diventata mainstream. Così ecco che «Afghans’ plight reignites migration fears in Europe», la situazione in Afghanistan riaccende le paure migratorie in Europa, titola Eu observer, e «La paura dell’Europa. Si rischia un’ondata di 250mila profughi», si legge su Repubblica. Che peso hanno le parole? Molto. La società si costruisce mentre si pensa, ed è «attraverso lo spettacolo che dà di se stessa che si dota delle regole necessarie al proprio gioco», come scrive il semiologo Eric Landowski ne La società riflessa. Dire che «l’Europa ha paura» implica due passaggi non neutrali. Significa anzitutto far coincidere lo spazio pubblico europeo con quello – parziale – dei governi che rifuggono l’ipotesi di accogliere. Poi, enfatizzando la paura, i media operano una scelta: quella di usare il registro patemico e di investire il tema di una passione negativa – la paura – invece di registrare i fatti e consentire al lettore di ricostruire chi porta avanti certe istanze e perché.
Dall’idraulico al rifugiato
C’è una traiettoria che collega il 2005, l’anno in cui la Francia con un referendum si è espressa sul progetto di Costituzione europea, il 2015 della crisi dei rifugiati siriani e il 2021 dell’esodo dall’Afghanistan. Nel 2005 i francesi con un «no» affossano la Costituzione, che poi verrà riformulata al ribasso con il Trattato di Lisbona, e al contempo con quel «no» esprimono un voto di sanzione negativa sulla propria classe dirigente. Ma tra i catalizzatori di quel rifiuto c’è anche un fantasma, che i media all’epoca hanno contribuito a costruire: è il fantasma del plombeur polonais, l’idraulico polacco. Per l’Europa quelli sono gli anni dell’allargamento a Est, della direttiva Bolkestein e della liberalizzazione dei servizi. Lo stereotipo del plombeur dell’est, nato dalla verve caricaturale di Charlie Hebdo e poi strumentalizzato politicamente da euroscettici come Philippe de Villiers, ha finito per abitare corposamente il discorso pubblico. Il mix micidiale di disoccupazione e sfiducia nella classe politica è stato convogliato in rabbia o paura verso «l’idraulico polacco»; un gioco a cui i media, oltre che la politica, hanno contribuito. Gli effetti, con il fallimento del progetto costituzionale, si vedono tuttora nella storia della costruzione europea.
Una decina di anni dopo, la crisi siriana e l’affermazione di sovranismi e populismi di destra ha elevato a potenza questo regime narrativo. In Italia, negli anni dell’ascesa politica di Matteo Salvini, lo spazio dedicato dai media, tg in primis, al tema dell’immigrazione è stato nettamente superiore alla sua portata e ha amplificato la percezione negativa degli arrivi. L’osservatorio europeo di giornalismo (Ejo) ha divulgato un anno fa un’analisi comparata sulla copertura mediatica del tema migratorio in 17 paesi europei. Il periodo più intenso è tra 2015 e 2016, con un apice – per quantità di articoli – in Ungheria e in Germania. La copertura ampia stride però con la scarsità di punti di vista: «I migranti e rifugiati sono sottorappresentati», conclude quel dossier. Mentre la politica trova nei media un megafono, chi cerca accoglienza rimane senza voce. Ora le «paure d’Europa» lo confermano: la paura sta negli occhi di chi guarda.
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