La vicepresidenza a Fitto è ammortizzata da concessioni agli altri gruppi. Così Ursula von der Leyen farà passare la sua svolta destrorsa (e i falchi)
Pugno di ferro in guanti di gommapiuma, Ursula von der Leyen è uscita dai negoziati per la nuova Commissione sfoderando una squadra più a destra che mai. Con qualche piccolo accomodamento di facciata si è creata pure le condizioni politiche perché venisse digerita.
Già i nomi segnalati dai governi erano infarciti di falchi (in economia e in politica estera) e sbilanciati sul Ppe. Poi la presidente ha messo il turbo, schiacciando tutto sotto la parola d’ordine: «competitività».
La presenza di un esponente dei Conservatori europei – il meloniano Raffaele Fitto – nel ruolo di vicepresidente esecutivo è stata segnalata, da tutte le famiglie progressiste che a luglio hanno votato von der Leyen, come un elefante nella stanza: è il segnale che la presidente dopo essersi fatta rieleggere intende cercare sponde quanto a destra vuole.
I verdi europei, per i quali l’allontanamento di Meloni dalla maggioranza Ursula è un tema esistenziale (perché loro si pongono come l’alternativa), ipotizzano che tramite le audizioni dell’Europarlamento si possa arrivare persino a rivedere le deleghe per il commissario italiano. Ma la disposizione generale – al netto della minaccia di una audizione severa e della richiesta che Fitto faccia abiura di sovranismo – è perlopiù «costruttiva».
A tutta destra quindi, e non solo. Se già von der Leyen era stata accentratrice nel primo mandato, accusata dai suoi stessi commissari di non coinvolgerli oltre che di opacità, nel bis la presidente ha disegnato la squadra così da ridurre al minimo il potenziale dissenso del collegio nei suoi confronti, ma da aprire spazi di contesa tra i commissari dove sia per lei politicamente utile (divide et impera).
La tattica e i vice
Le manovre democristiane di von der Leyen si vedono anzitutto dall’assegnazione delle vicepresidenze esecutive, per le quali dice di basarsi sulla geografia («tre da stati membri che hanno aderito prima della caduta della cortina di ferro, tre dai paesi baltici, nordici ed Europa orientale) e sul genere: essendo le donne solo il 40 per cento ne nomina quattro come vice.
Di fatto nei nomi c’è lo storico pontiere tra Meloni e il Ppe, cioè Fitto. Si nota così il varco che i Popolari tengono aperto a destra, ma il portafogli in sé (coesione e riforme, con un occhio al Pnrr assieme al falco Dombrovskis) non è niente di così eclatante da indispettire troppo gli altri. Nello scorso mandato lo aveva la portoghese Elisa Ferreira. In passato l’Italia ha avuto Affari economici (Paolo Gentiloni), concorrenza (Mario Monti) o persino la presidenza (Romano Prodi). Il bilancio dell’Ue non va all’Italia come Meloni aveva sperato, ma al tuskiano Piotr Serafin, così da tener buono un grande azionista del Ppe, il premier polacco Donald Tusk, che ha pure fatto da negoziatore per von der Leyen.
Liberatasi di Thierry Breton, che fino all’ultimo non le ha risparmiato critiche, la presidente dà al macroniano Stéphane Séjourné quel che la Francia chiedeva da tempo, cioè la strategia industriale. La capogruppo liberale Valérie Hayer appare visibilmente entusiasta. Quanto alla capogruppo socialista Iratxe García Pérez, fedelissima del premier spagnolo, lei è rassicurata da un’altra vicepresidenza esecutiva, quella che va a Teresa Ribera. La vicepremier spagnola, sostenitrice della transizione ecologica e madrina della eccezione iberica sui prezzi dell’energia, gestirà la politica di competitività e «una transizione pulita, giusta e competitiva».
I verdi rivendicano come un successo che tutta la squadra condivida la priorità della decarbonizzazione e di un piano industriale verde, ma il diavolo sta nei dettagli. E nell’intreccio di competenze. Ad esempio il clima in sé va (assieme alle tasse) all’olandese Wopke Hoekstra, falco noto per la sua opposizione all’indebitamento comune. A proposito di falchi: ovviamente tra i vice c’è l’alta rappresentante Ue Kaja Kallas, e oltre all’estone una finlandese, Henna Virkkunen. Tra i commissari il lituano Andrius Kubilius, noto per le posizioni inflessibili pro Kiev e anti Putin, prende Difesa e Spazio: «Lavorerà per sviluppare l’Unione della difesa e per incentivare investimenti e capacità industriale».
Il cuore a destra
Von der Leyen era stata battezzata dai bollettini brussellesi come «la presidente americana» e questa Commissione può essere intesa anche come una conferma filoatlantica, ma il principale sponsor politico al quale la presidente offre omaggi è il Ppe, anche perché nel suo mandato diventa fondamentale la cooperazione coi governi in Consiglio. L’agricoltura, ad esempio, va cristianodemocratico lussemburghese Christophe Hansen: i “farmers” sono stati un cavallo di battaglia in campagna elettorale e lui offrirà «una visione entro 100 giorni». L’ormai ex ministro delle Finanze austriaco Magnus Brunner si occuperà di Affari interni e Migrazione: «Rafforzerà le nostre frontiere».
Nel partito popolare austriaco, Brunner è considerato un liberale (sia moderato sia liberista), ma il ruolo sembra cucito per un paese dove a fine mese l’estrema destra arriverà prima. La portoghese Maria Luís Albuquerque, che nel curriculum ha pure Morgan Stanley, ha il ruolo non da poco di «completare l’unione dei mercati dei capitali». Nel loro ultimatum della scorsa settimana, i socialisti avevano lamentato l’assenza del loro Spitzenkandidat Nicolas Schmit, ma più rimarchevole (e infatti è stata notata dai sindacati europei, Etuc) è la scomparsa di quello che è stato il suo portafoglio per l’Occupazione e gli affari sociali. È sostituito con «persone, competenze e prontezza».
La parola «lavoro» è rimpiazzata dal «capitale umano». Il pilastro sociale dell’Ue finisce – in questi termini – nelle mani della romena Roxana Mînzatu. La capogruppo socialista Iratxe García Pérez – che considera l’annuncio di von der Leyen come «un mix di luci e ombre» – si dice sollevata che il dossier resti a una socialista, perdipiù con una vicepresidenza esecutiva. Ci si solleva come si può. Paradosso dei paradossi, l’unione della salute assegnata al controverso commissario Olivér Várhelyi, nominato da Orbán, che in pandemia spingeva per i vaccini russo e cinese.
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