- Uno dei vertici europei più importanti dell'anno - quello sul futuro della Politica agricola comune - è fallito ieri mattina sulla necessità di usare parte dei 350 miliardi di sussidi per una transizione ecologica del settore agricolo
- Oggi, per come è impostata, la PAC premia le aziende agricole più grandi e gli allevamenti intensivi: l'80% dei fondi per il sostegno al reddito degli agricoltori finisce in tasca al 20% delle aziende.
- Il vertice che doveva produrre una sintesi è collassato fra accuse e veti incrociati. Il prossimo tentativo è previsto per giugno.
C’è un’immagine che ci porteremo dietro a memoria del clamoroso fallimento che ieri ha caratterizzato il vertice europeo sul futuro della Politica agricola comune. È un breve videomessaggio rilasciato in una stanza disadorna da Tim Cullinan, vice presidente della potente lobby agricola europea Copa-Cogeca, a margine del colloquio a porte chiuse con Maria do Céu Antunes, ministra dell’Agricoltura portoghese e presidente di turno del Consiglio Ue, incaricata di portare avanti nel negoziato la posizione degli stati membri.
«Vogliamo il massimo dei pagamenti diretti, vogliamo il minimo di eco-schemi, vogliamo la massima flessibilità sugli eco-schemi, vogliamo che le misure cui gli agricoltori dovranno ottemperare siano misure che già stanno adottando», ha detto Cullinan, calando come un macigno la posizione della sua categoria sulla delicatissima trattativa.
Un negoziato che va avanti da quasi un anno e che deciderà il destino dei 350 miliardi di euro della PAC, il programma di sostegno all’agricoltura europea. La dichiarazione ha fatto alzare più di un sopracciglio: possibile che in un momento di confronto istituzionale tanto teso, la lobby più influente del settore ottenga un incontro privato con uno dei mediatori chiave nel vertice che avrebbe dovuto decidere la spesa di un terzo del bilancio comunitario?
Scontro totale
La prova di forza delle organizzazioni agricole europee rappresenta, tuttavia, anche il loro momento di debolezza sul piano pubblico. Dallo scorso autunno ormai, la PAC è uscita dal dibattito tecnico che la caratterizzava, per diventare un tema ferocemente conteso in tutto il continente: da un lato le organizzazioni ambientaliste, i movimenti per il clima e il mondo dell’agroecologia, dall’altro i consolidati interessi dell’agroindustria, poco inclini a rivedere lo status quo. I primi invece chiedono che la politica agricola imposti la transizione ecologica della produzione alimentare, che oggi copre un terzo delle emissioni climalteranti. Una PAC in linea con i nuovi quadri strategici europei - dal Green Deal alle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030 - potrebbe avere effetti a cascata su altre politiche ambientali. Altrimenti, sostengono gli ecologisti, meglio cancellarla e riscriverla interamente, piuttosto che farne un’operazione di greenwashing.
Ma i rappresentanti della categoria direttamente interessata dai sussidi non sono d’accordo e premono sulle istituzioni europee per depotenziare le velleità trasformative della PAC. Velleità che, per la verità, sono ben lontane dalla sufficienza: anche se tutte le migliori proposte di riforma sul tavolo venissero accolte, nei prossimi sette anni di programmazione la politica agricola continuerebbe a sostenere le imprese soprattutto in base a quanta terra coltivano o a quanti animali allevano. Un criterio che privilegia le grandi aziende e gli allevamenti intensivi, schiacciando le piccole sotto il peso di una competizione iniqua. Non è un caso che in appena un decennio (2005-2016) 4 milioni di aziende agricole abbiano chiuso in tutta l’UE, un crollo di circa il 20-25 per cento.
Anche se lontano dal produrre un cambio di rotta, il vertice collassato ieri poteva essere una prima fragile base per alcune riforme: la redistribuzione dei pagamenti a sostegno del reddito degli agricoltori (oggi il 20 per cento delle aziende intasca l’80 per cento degli aiuti), la quota minima di fondi destinati a pratiche agricole ecologiche (eco-schemi) e la cosiddetta “condizionalità sociale”, cioè la sanzionabilità delle aziende che sfruttano il lavoro agricolo.
Su quest’ultimo punto la trattativa è in fase più avanzata, tanto che la federazione dei sindacati del settore (EFFAT) manifesta un cauto ottimismo per i «progressi fatti durante i negoziati di questa settimana». Sul resto è guerra aperta: i ministri dell’agricoltura hanno accusato la Commissione europea di aver abbandonato il suo ruolo di mediatore, alleandosi con il parlamento europeo nel chiedere maggiori ambizioni ambientali e un allineamento fra politica agricola comune e Green Deal. Dal canto suo, la Commissione ha continuato a lanciare appelli alla sintesi e al coraggio, mentre gli eurodeputati facevano filtrare tutta la loro contrarietà sulle posizioni cariche di “ignoranza e immobilismo” dei rappresentanti degli stati membri.
E dire che neanche 24 ore prima il titolare del ministero delle politiche Agricole, Stefano Patuanelli, dichiarava fiducioso: «Su architettura verde e condizionalità sociale ci sono i margini per trovare una sintesi ed è l’obiettivo che tutti noi ci stiamo prefiggendo». Poco dopo, il video del Copa-Cogeca ghiacciava le ultime speranze di dialogo costruttivo.
Cosa succede ora? La presidenza portoghese dell’Unione farà di tutto per raggiungere un accordo entro giugno, prima di lasciare il testimone del semestre europeo alla Slovenia. I rappresentanti di Commissione Ue, Europarlamento e stati membri torneranno a incrociare le spade il mese prossimo, nella speranza di trovare un accordo in extremis. L’impressione è che, visto lo stato dell’arte, per la vera transizione dovremo attendere ancora. Almeno altri sette anni.
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