- Fidesz è riuscito a trasformare un provvedimento che doveva essere contro la pedofilia in una legge che è contro i gay. Ma oltre il manto ideologico ci sono obiettivi pragmatici.
- La crociata omofoba d’Ungheria fa parte di una precisa strategia politica. L’ideologo e fautore della «democrazia illiberale» spera infatti di raggiungere così vari obiettivi.
- Il primo è quello di spaccare l’opposizione, unita come non mai in vista delle elezioni del 2022, e in effetti il partito Jobbik si è distinto dagli altri sul tema. Il secondo è replicare la strategia usata da Andrzej Duda alle presidenziali polacche.
La legge ungherese anti lgbt fa scandalo, ed è proprio questo che Viktor Orbán vuole. La crociata omofoba d’Ungheria fa parte di una precisa strategia politica. L’ideologo e fautore della “democrazia illiberale” spera infatti di raggiungere così vari obiettivi: il primo è quello di spaccare l’opposizione, unita come non mai in vista delle elezioni del 2022. Il secondo è quello di replicare la “strategia Duda”: un anno fa, nelle presidenziali polacche, Andrzej Duda schiacciò tutta la campagna elettorale sulla retorica omofoba. È riuscito a farsi rieleggere presidente. La difesa della famiglia tradizionale, battaglia sulla quale Orbán trova alleati nella destra italiana, è l’ultima arma di distrazione di massa di Fidesz, che oltre al manto ideologico ha anche obiettivi pragmatici.
Una legge snaturata
Ricostruiamo i fatti, dal giorno in cui il parlamento ungherese approva la legge della discordia fino alla partita di calcio Germania-Ungheria che ieri Orbán ha disertato. Fidesz è riuscito a piegare in direzione omofoba quella che in origine doveva essere una legge contro la pedofilia. Il paese era rimasto infatti colpito dalla vicenda di Gábor Kaleta, ambasciatore ungherese in Perù, sorpreso con materiale pedopornografico – 20mila foto sul pc – ma che se l’era cavata con una multa da 1.500 euro. Perciò non c’erano grandi obiezioni all’idea di comminare pene più dure, ed era questo che i parlamentari si aspettavano di votare. Finché il partito di governo non ha infilato modifiche tali da trasformare la natura del provvedimento. L’8 giugno, prima del voto finale, Fidesz emenda il testo: sotto il cappello della «difesa dei diritti dei minori», inserisce «il divieto di mettere a loro disposizione contenuti devianti rispetto al sesso assegnato alla nascita, o che promuovono l’omosessualità». Anche i professori e gli educatori devono adeguarsi a questo criterio, e non allontanarsi da un principio, che è: «Il padre dev’essere un uomo, la madre una donna». L’educazione sessuale è preclusa «alle ong con orientamenti discutibili». Anche le pubblicità devono adattarsi a questi criteri eteronormativi.
Dividere l’opposizione
Con questa mossa Orbán non è riuscito solo a iniettare nel testo votato il 15 giugno contenuti omofobi, ma soprattutto a gettare nel campo a lui avverso il seme della discordia. La legge è passata, con 157 voti, e anche se la maggior parte dei parlamentari di opposizione ha abbandonato l’emiciclo in segno di protesta, qualcuno in quell’aula è rimasto. Si tratta di Jobbik, nato come partito di estrema destra, «radicalmente patriottico e cristiano», e che più di recente si è ripulito dai contenuti più estremisti per perseguire – come il suo manifesto ora dice – «l’intenzione di cooperare con le altre forze politiche per ripristinare democrazia e stato di diritto». Alle amministrative del 2019, infatti, Jobbik ha fatto un accordo di desistenza con gli altri partiti di opposizione. Alle elezioni venture, dopo le primarie d’autunno per scegliere il suo leader, l’opposizione unita sfiderà Fidesz. La legge anti Lgbt è la prima mela avvelenata di Orbán per dividerla. Jobbik mantiene posizioni «conservatrici», e il resto dell’opposizione si imbarazza.
Modello Duda
«Orbán prova a replicare la strategia usata da Duda alle scorse presidenziali polacche», dice lo storico ungherese Péter Techet, dell’università di Friburgo. «La Polonia è un paese con forti radici cattoliche, l’Ungheria meno, ma al premier serviva un nuovo nemico contro cui compattare il suo elettorato, dopo George Soros e i migranti». Trovare un bersaglio identitario è ciò che ha fatto appunto Andrzej Duda, che a luglio di un anno fa è riuscito a farsi confermare presidente per un pugno di voti. Duda ha condotto la sua battaglia di retroguardia contro la comunità lgbt. «Non ci siamo liberati dell’ideologia comunista per poi arrenderci a un’altra ideologia ben più distruttiva, l’ideologia lgbt», tuonava Duda durante i comizi nei piccoli villaggi, fortemente cattolici. L’avversario Rafał Trzaskowski, liberale ed europeista, ha perso per un paio di punti. La politica aggressiva e di chiusura scelta dal Pis, il partito di governo che ha appoggiato Duda, ha comportato anche nei mesi seguenti quel voto una vera e propria repressione di stato contro la comunità lgbt. Questa strategia, politicamente parlando, paga davvero? Nel lungo periodo non è detto, e in Polonia lo dicono vari segnali: il buon 14 per cento incassato al primo turno da Szymon Holownia, candidato indipendente di area cattolica ma moderata, le tensioni nella coalizione di governo e le manifestazioni di piazza che hanno trovato unite le donne per il diritto all’aborto, la comunità lgbt e i giovanissimi, per i quali questo tipo di battaglie identitarie omofobe sono fuori tempo.
Le due facce dell’Europa
Oltre a rivelare le sfumature nel campo dell’opposizione, Orbán con la sua politica anti lgbt mostra anche tutte le ipocrisie europee. Ora che è uscito dal Ppe, è bersaglio ancor più facile delle reprimende di Bruxelles; e infatti Ursula von der Leyen ha definito la legge ungherese «una vergogna». Ma queste sono parole. I fatti dicono altro. La Commissione in realtà asseconda il patto Berlino-Budapest e sta rinviando la messa in atto della condizionalità dei fondi europei allo stato di diritto; proprio ieri David Sassoli, facendo seguito alla risoluzione dell’Europarlamento del 10 giugno, ha scritto a von der Leyen. Per dirle che «se la Commissione non adempie agli obblighi agiremo contro di lei alla Corte di giustizia europea». Dall’Italia, Lega e Fratelli d’Italia corteggiano Fidesz; i leghisti e la ministra ungherese Katalin Novák gettano basi comuni sulla «famiglia tradizionale», Giorgia Meloni ieri ha cenato con Orbán. Che ha preferito lei a Germania-Ungheria: la Uefa non ha dato il via libera alla città di Monaco, che voleva tingere di arcobaleno la Allianz Arena durante la partita; ma il capitano della squadra tedesca Manuel Neuer si è presentato comunque con la fascia multicolore al braccio. Orbán disprezza sia questo che il gesto di inginocchiarsi contro il razzismo: «Gli ungheresi si inginocchiano solo davanti a Dio, al paese e alle fidanzate».
© Riproduzione riservata