- Neppure i 97 milioni spesi in attività lobbistica dai colossi digitali frenano l’Ue: la volontà politica c’è. Ecco le tre iniziative che danno a tutti più libertà e ai rider i loro diritti.
- Digital Markets Act e Digital Services Act prendono di mira la posizione preferenziale dei colossi di Big Tech e intendono scalfire anche il modo arbitrario in cui gestiscono i contenuti. Tra le novità: saremo liberi di chattare con gli amici che hanno Whatsapp o Facebook rimanendo però fuori da queste piattaforme. Capiremo perché quel certo post di Salvini su Facebook circola così tanto.
- Poi c’è la direttiva per i lavoratori delle piattaforme: Bruxelles riconosce che un rider è un lavoratore dipendente, e rivendica trasparenza sull'algoritmo.
Nelle intenzioni dell’Unione europea, in un futuro prossimo saremo liberi di chattare con gli amici che hanno WhatsApp o Facebook rimanendo però fuori da queste piattaforme. Capiremo perché quel certo post di Matteo Salvini su Facebook circola così tanto sulla nostra bacheca. Guarderemo nei meandri degli algoritmi, e vedremo restituiti ai rider i loro diritti negati. L’Ue ha un piano in tre mosse per circondare i giganti della tecnologia, noti come Big Tech; e a giudicare dai 97 milioni annui spesi in attività lobbistica per fermarlo, quel piano all’industria digitale non piace. Ma questo è il momento perfetto per l’affondo dell’Europa sulle grandi piattaforme: la Francia, che da gennaio ha la presidenza di turno, punta sulla «sovranità digitale». E gli scandali che travolgono Facebook aiutano a fare passi in questa direzione.
Digital Markets Act
«Ho aspettato a lungo questo momento». Da sette anni ormai, Margrethe Vestager dà battaglia ai monopoli tech. Come trustbuster europea, ha sfidato Google, Amazon, Facebook e Apple. Ma finora, come lei stessa ha ammesso, non ha potuto fare abbastanza per regolare il mercato digitale. Oggi, da vicepresidente di una Commissione che ha messo al centro green e digitale, Vestager è convinta: «Siamo alla svolta». Così ha detto martedì davanti agli europarlamentari chiamati a esprimersi sul Digital Markets Act, la proposta che la Commissione Ue ha avanzato sulla questione. Per le piattaforme più grandi, che saranno catalogate come gatekeeper, e tra le quali rientreranno per certo Apple, Alphabet Amazon, Microsoft e Facebook, l’Europa ha in serbo una lista di cose da fare e da evitare, pronta a comminare multe salate ai trasgressori.
Una lista che di fatto è una proposta di Bruxelles per liberare il mercato, in attesa di mantenere anche la promessa di un nuovo competition tool, strumento coercitivo per garantire la competitività. Tra quel che i big dovranno assicurare c’è l’accesso ai dati generati dalle imprese che utilizzano le loro piattaforme, e la possibilità per le stesse imprese di rivolgersi al cliente anche fuori dalla piattaforma stessa, senza che al cliente venga impedito di fare altrettanto. Obblighi che si prefiggono di scalfire la posizione preferenziale mantenuta fino a oggi dai Big Tech, anche per dare qualche chance agli altri attori europei che si muovono sugli stessi mercati. Questo è uno dei punti al cuore della «sovranità digitale», perorata sia da Macron, sia dal commissario Ue francese Thierry Breton, che segue il dossier con Vestager.
Liberi di cambiare social
Oggi l’Europarlamento ha espresso un ampio sostegno alla proposta di Bruxelles. «Gli eurodeputati, nonostante le pressioni lobbistiche, hanno scartato le ipotesi peggiori e ne hanno appoggiate alcune importanti, come quella sulla interoperabilità», dice Jan Penfrat di Edri (European Digital Rights), il più grande network europeo per la difesa dei diritti digitali. «In futuro potremo trasmigrare dal social o dalla chat più grande, come Facebook e WhatsApp, e dare una chance a piattaforme più piccole, alternative, e comunicare comunque tra noi».
Saremo liberi quindi di andarcene dai grandi social senza troppe complicazioni, e anche il mercato non sarà più vittima del «network effect», che finora ha consentito alla piattaforma che ha più utenti di avere maggiori chance di attrarne ulteriori. Si aprono così nuovi orizzonti di opportunità per le start up europee. Dopo il voto dell’Europarlamento, il dossier ora passa al negoziato tra le istituzioni Ue, tra cui i governi, rappresentati nel Consiglio. «L’interoperabilità ha chance di sopravvivere al compromesso», è la previsione di Jan Penfrat: «Sia in Germania che in Francia, le autorità antitrust hanno preso una posizione favorevole, perché la considerano necessaria per scardinare i monopoli». E la presidenza francese, che prende il via a gennaio, ha tutta l’intenzione di spingere sul dossier.
Digital Services Act
L’Ue dopo vent’anni rinfresca la sua direttiva sull’e-commerce e lo fa recependo i grandi temi dell’attualità, dalla diffusione di contenuti illegali sulle piattaforme online alla richiesta di maggiore trasparenza. Quest’ulteriore proposta di Bruxelles, il Digital Services Act, è passata martedì in commissione Imco all’Europarlamento e a gennaio arriverà in plenaria. L’eurodeputata verde Alexandra Geese, in prima linea sul dossier, dice che «limiterà l’arbitrarietà con cui le piattaforme gestiscono i contenuti», e non solo quelli illegali. Dalle rivelazioni recenti della whistleblower Frances Haugen si è scoperta, ad esempio, l’esistenza di corsie preferenziali per gli utenti più influenti.
Con il Digital Services Act, spiega Geese, l’azienda sarà tenuta a rispettare con tutti i suoi utenti i termini e le condizioni che hanno sottoscritto, senza applicarli difformemente o in modo discriminatorio. Anche sulle modalità attraverso le quali le piattaforme amplificano alcuni contenuti, magari quelli più polarizzanti e divisivi, il piano dell’Ue è di fare chiarezza. «Come mai un post di un certo politico ci appare sempre, mentre magari uno dell’Oms quasi mai? Perché anche senza seguire Matteo Salvini, se un amico commenta un suo post per criticarlo, quel post ci compare con insistenza? Si tratta di capire – dice Geese – quali criteri usano le piattaforme per amplificare i contenuti. Se abbiamo queste informazioni, possiamo capire come intervenire».
La prossima sfida
La battaglia che resta per ora incompiuta è quella per scardinare il surveillance advertising, e cioè la pubblicità basata su profilazione e tracciamento dei nostri comportamenti. «Questo è uno dei punti sui quali nelle ultime settimane l’attività lobbistica di Big Tech è stata più intensa», dice Margarida Silva, ricercatrice del Corporate Europe Observatory. Dal suo monitoraggio sui tentativi dell’industria digitale di influenzare i dossier emergono dati impressionanti: già ad agosto, i milioni annui spesi per il lobbying verso le istituzioni Ue erano 97. Pressioni e denaro arrivano soprattutto da Google, Facebook, Microsoft.
«Di recente Big Tech si è concentrata proprio sull’obiettivo di evitare ogni limitazione alle pubblicità personalizzate», nota Silva. Per il network dei diritti digitali Edri, sostiene Jan Penfrat, «questa sulla pubblicità è la sfida che la società civile deve lanciare per migliorare i piani Ue: abbiamo anche il garante della privacy europeo e molti eurodeputati dalla nostra parte». L’eurodeputata Geese dice che «siamo riusciti per ora a incassare limitazioni solo per i minori, ma ritenteremo alla plenaria di gennaio».
Lavoratori delle piattaforme
L’altro colpo dell’Ue alle piattaforme mira a difendere i lavoratori ed è contenuto nella proposta di direttiva che la Commissione ha presentato giovedì scorso (“Improving working conditions in platform work”). La svolta è in linea con ciò che i tribunali d’Europa, in Olanda, in Spagna, in Italia, affermano con sempre più frequenza: i rider non sono lavoratori autonomi ma dipendenti, e come tali vanno considerati.
Una posizione che il gabinetto von der Leyen ha fatto propria. «Il 90 per cento dei verdetti dice questo, e io li seguo», dice infatti il commissario Ue al Lavoro, Nicolas Schmit.
L’eurodeputata di sinistra Leïla Chaibi, promotrice del “Forum anti uberizzazione”, nota che «questa rete tra i rider Ue è stata fondamentale: hanno potuto portare le loro istanze a Schmit e fare da lobby alternativa a quella dei colossi». Chaibi pronostica per aprile i negoziati, per settembre l’adozione della direttiva.
L’algoritmo come contratto
Il cambio di marcia si vede pure dalla richiesta di Bruxelles per più trasparenza sugli algoritmi che dettano le condizioni di lavoro ai rider. La Commissione sostiene che anche se il sistema con cui le piattaforme digitali «valutano chi lavora e gli assegnano compiti» è automatizzato, dietro il «management dell’algoritmo» ci sono scelte del tutto umane. La nuova frontiera passa prima per la trasparenza, poi per far entrare il negoziato sindacale anche su questo fronte. La pensa così il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Gli algoritmi oggi sono il contratto di lavoro». Bisogna conoscerli, per poterli negoziare.
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