- Con i poteri che si è assegnato durante la guerra, Viktor Orbán ha escogitato l’ennesima trappola per i media indipendenti: le edicole avranno sgravi fiscali se distribuiscono i giornali filogovernativi. Che il pluralismo nei media in Europa sia a rischio, non è neppure più una notizia.
- Ma la novità è che ormai non si salva più nessuno. Tra i punti di maggiore vulnerabilità ci sono le pessime condizioni di lavoro per i giornalisti. Nel monitor sul pluralismo dei media 2022 appena presentato dal Cmpf l’unico paese che non risulta a rischio in fatto di pluralismo è la Germania. Se già con il debito il riferimento è il Bund tedesco, ora anche quando parliamo di pluralismo informativo il divario, lo spread, andrà calcolato su Berlino.
- La Commissione europea sta per lanciare lo European Media Freedom Act per invertire la tendenza negativa in Europa. Ma significa andare controcorrente, come racconta la commissaria Ue Vera Jourova: pure nella “libera” Germania l’idea di nuove regole europee produce insofferenza. «Gli editori tedeschi sono venuti da me con una richiesta molto forte, e cioè: “Non regolate affatto!”», racconta Jourova.
Con i poteri che si è assegnato durante la guerra in Ucraina, Viktor Orbán ha escogitato l’ennesima trappola per i media indipendenti: le edicole avranno sgravi fiscali se distribuiscono i giornali filogovernativi. Che il pluralismo nei media in Europa sia a rischio, non è neppure più una notizia. Ma la novità è che ormai non si salva più nessuno, non esistono isole felici, e l’iniziativa che la Commissione europea sta per lanciare – lo European Media Freedom Act – nuota controcorrente. Fino a che punto, lo ha fatto intendere ieri la stessa commissaria europea che se ne occupa, Vera Jourova, collegandosi con l’Istituto universitario europeo di Firenze.
Lo spread del pluralismo
Il Centre for Media Pluralism and Media Freedom (Cmpf) diretto dal professor Pier Luigi Parcu ha appena presentato il monitor sul pluralismo dei media del 2022. L’unico paese che non risulta a rischio è la Germania.
L’Italia è nel mezzo: da noi il pluralismo è mediamente a rischio, e anche se in alcuni ambiti come la presenza delle donne nei media siamo da bollino rosso, la situazione è comunque meno infausta che per ungheresi e polacchi. Dalla fotografia escono sorridenti gli scandinavi: Svezia e Danimarca sono tra i pochi paesi a basso rischio. Ma la Germania è l’unica in assoluto dove per la libertà dei media non ci sono insidie apparenti.
Se già per il debito, e i titoli di stato, il riferimento per noi è il Bund tedesco, ora anche quando parliamo di pluralismo informativo il divario, lo spread, andrà calcolato su Berlino. Significa quindi che almeno qualcuno in Europa è immune da guai? Jourova lascia intendere di no. «In questi tempi di preparazione dello European Media Freedom Act gli editori tedeschi sono venuti da me con una richiesta molto forte, e cioè: “Non regolate affatto!”».
L’Ue è abituata a regolare il mercato comune, ma i media non sono un’impresa qualunque, e Bruxelles si sta ingegnando su come intervenire in un campo che di solito è normato a livello nazionale. Vuol definire standard comuni, e già nel mese di luglio dovrebbe esserci una bozza. Tra chi preferirebbe evitare un intervento dell’Europa non ci sono solo i paesi messi peggio, ma anche quelli come la Germania che ritengono di star bene già così, senza regole Ue; un po’ come è avvenuto coi paesi scandinavi quando l’Europa ha concepito la direttiva sul salario minimo.
Lavoratori poco liberi
La prima condizione per media liberi è la libertà dei giornalisti. È la «precondizione» del pluralismo, e infatti la «protezione di base» è uno degli ambiti attorno ai quali il Cmpf costruisce il suo Monitor annuale. L’analisi considera la tutela della libertà di espressione, la protezione del diritto all’informazione, ma pure la protezione e gli standard della professione giornalistica. Ed è su questo punto che i dati sono impressionanti: nel giro di un biennio, il livello di rischio è salito di dieci punti percentuali, e ora siamo al 43 per cento.
Chi pensa che l’unica minaccia alla libertà dei giornalisti sia quella fisica, le minacce online, o la sorveglianza digitale come quella via Pegasus, dimentica però un elemento chiave. «Nell’ambito della protezione dei giornalisti, il punto assai critico sono le condizioni di lavoro, a cominciare da bassi salari, introiti incerti e sistemi di welfare inadeguati; molti paesi non hanno neppure contratti collettivi», mette a fuoco Danielle da Costa Leite Borges (Cmpf). «La crisi pandemica non ha fatto che peggiorare una situazione già critica». Complici la crisi della carta stampata e gli strattoni inferti da Big Tech, i media hanno reagito a modo loro, e non senza conseguenze. Da una parte, «c’è una tendenza crescente dell’industria mediatica tradizionale a operare fusioni nella speranza di competere con attori digitali», e questo «fa impennare il livello di rischio di concentrazione dei media all’82 per cento», spiega Roberta Carlini (Cmpf), esperta di pluralismo di mercato. Ma le grandi manovre si ripercuotono anche sui piccoli, e cioè sui lavoratori: sempre più, reportage e inchieste vengono esternalizzati «ai freelance, che sono free, liberi, per modo di dire». Ecco perché sia il Cmpf che le istituzioni Ue sono alle prese con le “Slapp” (sberle): l’acronimo indica le cause legali intentate contro i singoli giornalisti allo scopo di intimidirli.
Dilagano proprio perché per un giornalista, ancor più se freelance e precario, è diventato così costoso difendersi dagli attacchi dei super-ricchi, che quei costi diventano una forma di intimidazione. Il numero di slapp cresce, e manca ancora una cornice regolatoria efficace per contrastarle, notano i ricercatori del Centro. La loro speranza è che oltre ad affrontare il tema slapp, come Bruxelles ha promesso di fare, nella sua bozza di “freedom act” l’Ue «stabilisca standard comuni per la sicurezza economica dei giornalisti». Il Cmpf è molto ascoltato, in sede europea: il monitor sul pluralismo presentato ieri fornisce anche la base sulla quale la Commissione, e Jourova nello specifico, elabora i suoi rapporti annuali sullo stato di diritto (“rule of law reports”).
Derive in stile ungherese
I paesi con il livello più basso di pluralismo sono proprio gli stati Ue che hanno contenziosi aperti con Bruxelles sullo stato di diritto: l’allerta per la libertà di informazione raggiunge i massimi in Ungheria e Polonia. Peggio di loro, solo Albania e Turchia, che al momento in Ue sono solo candidate a entrare. Ma nessuno è immune dal modello negativo ungherese. «Fino a cinque anni fa, sarebbe stato improbabile immaginarsi il mio paese posizionato tra Serbia e Ungheria in termini di rischi per il pluralismo», dice Marko Milosavljevic che per il monitor si è occupato della Slovenia. «Nonostante il cambio di governo, la situazione delle emittenti pubbliche continua a peggiorare: la gestione penalizza i giornalisti non allineati». È l’eredità dell’ex premier Janez Janša, che in fatto di media ha imparato dal suo amico e alleato Orbán. La stessa cosa ha fatto la Polonia, che proprio in questo monitor del 2022 fa il suo debutto nella fascia ad alto rischio, nel capitolo sulla protezione della libertà di espressione. La orbanizzazione dei media funziona sia offrendo un modello replicabile, ad esempio alla Polonia, che controllando media amici nei Balcani. Imprenditori legati al premier, come Peter Schatz, hanno acquisito e finanziato media locali ad esempio in Slovenia e Macedonia del Nord.
L’emergenza e la libertà
La deriva mediatica illiberale in stile ungherese era chiara a Bruxelles già quando è iniziata, e cioè nel 2010: da allora i media sono caduti nella rete di Orbán come caselle del domino. Dal 2018, a proposito di pluralismo, gli oligarchi vicini al governo hanno fatto convogliare tv, giornali e radio dentro un solo colosso, la fondazione Kesma.
Sono poche le realtà indipendenti che non sono finite fagocitate dal cerchio magico del premier, e sopravvivono in condizioni ostili. Condizioni che peggiorano sempre più. Le crisi multiple – pandemia, guerra – sono l’alibi perfetto per il premier. Già durante lo stato di emergenza pandemico ha imposto una legge anti-lgbt con componenti censorie verso il settore audiovisivo. Ora che ha imposto lo «stato di guerra», Orbán si è inventato l’ennesimo stratagemma strozza-media: le edicole che distribuiscono solo giornali governativi pagano meno tasse. È una nuova legge, risale a metà giugno, e «formalmente parla di giornali che contengono “informazioni di pubblico servizio”, ma il partito di governo, Fidesz, chiama così la propaganda governativa», dice il ricercatore ungherese Krisztián Szabó.
Media Freedom Act
«Un’analisi condotta sui paesi di Visegrad mostra che in tutti e quattro, pure in Ungheria, i cittadini vogliono indipendenza per i media», dice lo studioso Vaclav Stetka. Si può ancora cambiare rotta?
La commissaria Jourova spiega che «le mere raccomandazioni non bastano, e non bastano gli stumenti che abbiamo oggi. Servono azioni più importanti. Mi sono sentita dire che la Commissione non ha competenze in fatto di media, perché esistono peculiarità e competenze nazionali. Ma il digitale non ha confini. Con questa nuova iniziativa definiremo gli standard per invertire le tendenze negative». Chi si occupa di pluralismo, come la professoressa Elda Brogi che ha curato il monitor, spera che si possa passare all’azione con interventi che spaziano da «test sul pluralismo» a «un fondo europeo dedicato»: si tratta di supportare chi svolge un servizio pubblico indipendente, ed evitare che il potere – mediatico – si concentri nelle mani di pochi.
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