Marta Lempart è la leader delle proteste per il diritto all’aborto in Polonia. Oggi il movimento è cresciuto. «Abbiamo generato un cambiamento sociale, ora serve quello politico. Perciò sosteniamo i nostri candidati. Di Tusk mi fido: abbiamo un patto. La Commissione Ue invece ci ha tradite»
«Una volta, durante le proteste, la polizia mi ha picchiata al punto che sono rimasta bloccata a letto per un mese e mezzo. Poi c’è stata la fase in cui ho ricevuto minacce di morte. Sono stata dotata di una scorta, e siccome girava in borghese, quando i poliziotti si scagliavano contro di me alle manifestazioni, finivano per colpire pure i loro colleghi».
A Marta Lempart è capitato di finire con le ossa rotte, ma politicamente si mostra infrangibile e determinata. È nota in tutta Europa come la leader delle proteste delle donne polacche per il diritto all’aborto. Quel movimento in Polonia è altro e di più: è la rivolta dei giovanissimi contro un sistema che non li rappresenta; è l’indignazione collettiva per le derive di regime del Pis, il partito di governo alleato di Meloni in Europa; è l’intersezione di molte lotte, femministe, climatiche, sociali, legate dall’obiettivo di un cambiamento.
A Varsavia il quartier generale di Strajk Kobiet (“sciopero delle donne”) è tappezzato di foto. C’è la “Czarny Protest” del 2016, quando un fiume in piena di donne indignate ha arginato i piani degli ultraconservatori del Pis per il divieto totale di abortire. Poi c’è l’ondata di proteste del 2020, quando è stata la Corte costituzionale – in un paese dove il partito al potere si è preso pure l’indipendenza dei giudici – ad attaccare di nuovo il diritto all’aborto. Tutti questi cicli di ribellione hanno avuto Lempart alla guida. Nel suo ufficio, la foto alle sue spalle la ritrae «con la mia compagna» – una con il megafono, l’altra con il microfono – in testa a un’onda di gente che manifesta. Oggi però il nuovo atto del movimento non è in piazza. È alle urne domenica. Lempart fa campagna per Donald Tusk premier, e sostiene «una ventina di nostri candidati che hanno chance di farcela».
Nel 2020 le proteste per l’aborto hanno fatto scalpore. Erano inedite per partecipazione e durata. C’era un cambiamento nell’aria. Perché le avete interrotte?
Sia perché poi la sentenza anti aborto della Corte costituzionale è diventata effettiva, sia perché la repressione violenta si è intensificata nel tempo. La polizia ci cacciava, ci picchiava, ci arrestava: la gente si è spaventata, ed era esausta. Non ce la faceva più.
Il Pis vi ha prese per sfinimento? Che fine ha fatto il movimento?
È bene precisare che anche quando non vedete le piazze di Varsavia stracolme c’è un attivismo costante, pure nelle piccole città. Io sono responsabile della fondazione che supporta il movimento: mi occupo di raccogliere fondi, anche internazionali, tramite bandi e crowdfunding; poi quei soldi vengono riversati sui territori perché possano organizzare proteste e attività. Non solo per i diritti delle donne, né tantomeno solo per l’aborto: supportiamo i pride lgbt, gli scioperi degli insegnanti sottopagati, le proteste dei giovani per il clima, e così via. Diamo assistenza a oltre 600 gruppi locali. Quando è deflagrata la guerra in Ucraina, abbiamo gestito l’operazione di aiuti umanitari su più larga scala.
Il governo polacco in Ue ha battuto cassa in nome dell’accoglienza, ma è stata la società civile ad aver cura degli ucraini?
Esatto. Il governo ruba soldi, noi invece ci siamo giocate tutti i risparmi della fondazione per supportare i rifugiati; abbiamo dovuto raddoppiare il bilancio. Lo “sciopero delle donne” ha finanziato 500 centri di assistenza umanitaria. È solo una parte delle attività che promuoviamo: c’è per esempio una rete capillare di aiuto in caso si subisca violenza domestica; ciò mentre il governo vuole uscire dalla convenzione di Istanbul.
L’onda per l’aborto ha catalizzato le energie dei giovanissimi e di un’ampia fetta di società polacca che non si riconosce né in Kaczynski, il leader del Pis, né in questo vecchio establishment. Ma da qui a mettere attivisti in lista e prendere posizione per una coalizione, c’è un salto di qualità. La scelta è stata indolore nel movimento?
È vero che le proteste sono cominciate per l’aborto e i diritti, ma sono diventate un «fuck Pis! al diavolo il Pis!». Tanto i giovanissimi quanto persone più anziane si sono aggregate contro questa classe politica. Va detto che fra i polacchi tra i 18 e i 25 anni, ben uno su tre è andato alle proteste, ma pare che solo il 40 per cento sia intenzionato a votare. Hanno tantissime ragioni, e direi in generale che hanno ragione: non si sentono rappresentati. Però io penso che in questa fase dobbiamo fare un patto, e dirci: insieme abbiamo generato un cambiamento sociale, ora è il momento di innescarne anche uno politico. Proprio per mobilitare al voto questo pezzo così importante di Polonia abbiamo lanciato la campagna «vota per l’aborto»: bisogna eleggere almeno 231 deputati che intendano legalizzarlo. Nel movimento abbiamo deciso di supportare solo Koalicja Obywatelska (la coalizione della quale fa parte Platforma di Tusk) e Lewica (la sinistra) perché sono le uniche formazioni che sostengono l’aborto legale a livello di partito, non solo per buona volontà di qualche candidato.
Il partito di Tusk è di centrodestra e almeno in passato ha avuto posizioni ambigue sul diritto all’aborto, così come aveva posizioni composite sui diritti lgbt. Ritiene che oggi l’opposizione sia nitida su questi temi? Che tipo di impegno avete concordato?
Tusk sa che ad oggi il 98 per cento dei suoi elettori vuole legalizzare l’aborto: è suo interesse tener conto delle nostre istanze. E lo sta facendo: a giugno 2022, dopo che abbiamo fatto una poderosa raccolta di firme, il parlamento ha dovuto votare sulla legalizzazione dell’aborto; non è passata perché non c’erano i numeri, ma stavolta Platforma ha sostenuto il diritto all’aborto. Una volta l’80 per cento dell’aula era contro. La mattina del voto, Donald Tusk, nonostante non sia un deputato, è venuto in parlamento; ha preso posizione rilasciando interviste per ore. E si è assicurato che nessuno del suo partito finisse bloccato in ascensore...
Cioè ha garantito la disciplina di partito?
Esattamente. Ha assicurato che nessuno accampasse scuse. In passato è capitato: ti raccontano che sono rimasti bloccati in ascensore, chiusi in bagno, che non hanno trovato parcheggio… Mi fido di Tusk. Ha candidato solo chi era disposto a sottoscrivere l’impegno per la legalizzazione dell’aborto entro le 12 settimane.
E se resta al governo il Pis?
Serve un cambio politico per diventare uno stato secolare, cosa che oggi la Polonia non è. Ciò che più temo, in caso di vittoria del Pis, è che finirà di smantellare l’indipendenza dei giudici. Noi possiamo auto organizzarci per assistere le donne nell’aborto e in altre istanze sociali. Ma se ci tolgono lo stato di diritto, sa che vuol dire? Contro di me, per le proteste, sono stati intentati 116 processi, ma finora i giudici hanno fatto i giudici, e io non sono stata arrestata. Quando faranno ciò che chiede il governo, la nostra capacità di opporci sarà fortemente inibita. In queste derive ha una grave responsabilità la Commissione europea. Sa, la Corte di giustizia europea è intervenuta tempestivamente quando il governo polacco ha iniziato ad attaccare l’indipendenza della magistratura. Invece la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen non ha fatto altrettanto, e per quel che riguarda lo stato di diritto in Polonia ha tergiversato e chiuso più di un occhio. Mi sento tradita, da questa Commissione Ue. Spero che domenica la Polonia scelga il cambiamento.
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