Ursula von der Leyen è andata a cercare fino all’ultimo i 361 voti necessari a garantirle la maggioranza assoluta in Europarlamento e quindi il bis alla presidenza della Commissione europea. Cosa ha fatto in tutto questo Giorgia Meloni? Si è mossa come un giocatore d’azzardo, rischiando cioè con poche mosse improvvide di vanificare tutto il tesoretto politico che lei – e Raffaele Fitto per lei – ha accumulato dal 2021 a giugno.

Riguardo a come Fratelli d’Italia avrebbe votato, la premier ha tenuto le carte coperte finché le è stato possibile, sapendo che il voto è segreto e che quindi ha senso esporsi politicamente solo se si può rivendicarlo. Il punto è che i margini per rivendicarlo si sono ristretti, perché Meloni stessa si è messa di lato, riducendo le proprie possibilità di essere davvero incisiva.

Così l’Italia che in passato ha espresso presidenti di Commissione e che ha promosso svolte storiche come l’indebitamento comune, quello stesso paese fondatore che il governo meloniano è così abile a chiamare in causa per alzare la voce, è stato in realtà ridotto alla marginalità per il modo in cui la premier ha gestito tutto il dossier delle nomine.

Il corposo lavoro fatto in questi anni da Fratelli d’Italia per porsi come forza di intermediazione tra il resto delle destre estreme e il centro del potere, accreditandosi quindi come sponda per i Popolari europei, si volatilizza rapidamente.

Le variabili dell’elezione

Il voto su von der Leyen si tiene questo giovedì all’una, ma già alle otto di mattina Ursula von der Leyen trasmetterà in anteprima ai capigruppo le proprie linee guida politiche.

Per quel che si è potuto ricostruire alla vigilia, prendono la forma di più di trenta pagine che spaziano su vari temi, alcuni più politicamente sensibili di altri: verosimilmente nessun voto andrà perso con l’ennesimo inno alla competitività, mentre il modo in cui verrà declinata la sezione sull’immigrazione oppure quella sui piani verdi possono destare allerte. Eccessive derive meloniane possono irritare socialisti e liberali che non vogliono associarsi a lei, mentre una rivendicazione del green deal potrebbe galvanizzare i verdi che già hanno offerto alla presidente sia il loro supporto che una versione di green orientata alle imprese.

Alle nove poi la presidente in cerca di bis pronuncerà il suo discorso, che è stato cesellato per settimane nel tentativo di agganciare più voti possibile, e viceversa di alienarne il meno possibile. Von der Leyen ha incontrato una per una le delegazioni della sua famiglia politica – perché è anzitutto dal Ppe che temeva i franchi tiratori dopo l’esperienza dei riottosi del congresso di Bucarest – e ha affollato l’agenda di telefonate e incontri per sondare i consensi: tanto per fare un esempio, martedì ha voluto parlare di persona pure con Nicola Zingaretti perché non si è accontentata di sapere genericamente che il Pd avrebbe votato a favore.

Neppure il fatto che la Corte di giustizia Ue alla vigilia del voto abbia stigmatizzato la sua opacità sui contratti per i vaccini ha intaccato l’operazione di raccolta dei voti.

L’azzardo di Meloni

Il punto è che in questo tipo di elezione bisogna tassativamente raggiungere la maggioranza assoluta di 361 voti, ed è per questo che politicamente una astensione viene considerata alla stregua di un voto contro; non a caso fino alla vigilia il capodelegazione di Fratelli in Ue, Carlo Fidanza, non la dava come opzione possibile.

Ma sulle altre due scelte – cioè votare pro o contro – è stata coltivata una ambiguità intenzionale. Ed è solo Meloni – che a sua volta con von der Leyen ha fatto molte telefonate – a dettare la decisione finale, anche se questo mercoledì, tanto per alzare il tasso di incertezza, è filtrata la notizia di un sondaggio realizzato da FdI alla sua base via mail: «Cosa dovrebbe fare Fratelli d'Italia? Votare von der Leyen in ogni caso; non votarla in ogni caso; astenersi come ha fatto in Consiglio, rispettando le diverse posizioni nella maggioranza di governo; votarla solo se garantisce all'Italia un ruolo importante; non so».

Al Consiglio europeo di fine giugno Meloni era finita ai margini assieme a Orbán e aveva giustificato l’astensione sulla presidente con la necessità di comporre le varie posizioni di governo; questo mercoledì Matteo Salvini è andato a dire espressamente che comunque lei scelga la coalizione non sarà a rischio, dunque non si può scaricare l’indecisionismo sulla Lega, perciò torna utile una consultazione il cui esito è per ora in mano solo a Meloni.

Il capodelegazione di Fdi, Fidanza, e il capogruppo meloniano dei Conservatori, Nicola Procaccini, hanno annunciato un punto stampa per giovedì alle 15, «al termine della comunicazione del risultato del voto». Nel 2019 c’è chi ha rivendicato la propria posizione solo a risultato uscito (il voto è segreto) valutando sulla base di quest’ultimo la convenienza politica dell’annuncio.

È lecito pensare che la premier non voterebbe contro la presidente che le è venuta incontro numerose volte – sia in senso metaforico che concreto viste le numerose gite di von der Leyen in Italia – se i suoi voti fossero determinanti a farla eleggere e se potesse quindi rivendicare la propria centralità. Il punto è che per suoi errori strategici si è messa ai margini, mentre i socialisti e i liberali spingevano per una maggioranza col Ppe senza destre estreme, e mentre i Verdi lavoravano per fare da appoggio a questo blocco tradizionale.

Meloni e i Popolari hanno un interesse comune: loro ad appoggiarsi alle destre estreme per virare a destra sui dossier, lei a far da tramite tra destre e aumentare così il proprio valore negoziale. Ma con i suoi tentennamenti Meloni sta optando per la tattica e non per la visione: è questo che distingue un giocatore d’azzardo da uno stratega, e che rischia di far dilapidare in fretta anche la centralità dell’Italia in Ue.

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