Nata politicamente sotto la stella dell’alleanza tra il Ppe e Giorgia Meloni, rieletta questo martedì alla guida dell’aula con maggioranza plebiscitaria, Roberta Metsola è una Ursula von der Leyen che ce l’ha fatta: non per diversi talenti, ma per diversi tempi e opportunità, Metsola è riuscita a imbonire tutti o quasi.

Dopo i 562 voti favorevoli ottenuti da lei adesso, le aspettative sul voto di giovedì per la riconferma di von der Leyen non possono che crescere. Non basta cavarsela per un voto. Anche per questo la presidente di Commissione si è sottoposta a un’ora di discussione «intensa» – come lei stessa l’ha definita – coi Conservatori europei questo martedì. «Sta lavorando duro alla riconferma», per dirla con Metsola.

I punti di contatto

Se Meloni non vuole «consegnare von der Leyen ai Verdi» – se cioè vuole tenere aperto per sé e per i Popolari europei un margine di manovra – non le conviene fare sgambetti alla presidente di Commissione europea, che subito dopo una sua rielezione dovrà definire i portafogli della sua squadra.

Il ragionamento è stato condiviso con Domani da una figura strategica del Ppe, che questo weekend si trovava proprio a Roma; ma sembra lo abbiano ben presente sia i meloniani che von der Leyen stessa, a giudicare dai segnali arrivati questo martedì.

Durante l’incontro con Ecr, pare che la presidente di Commissione europea abbia fatto filtrare l’idea di una vicepresidenza con delega alla sburocratizzazione. Non si può non notare come l’idea faccia eco alla versione meloniana: «Penso che il nuovo presidente di Commissione dovrebbe immaginare una delega specifica alla sburocratizzazione, dando così un segnale immediato del cambio di linea che intende esprimere», ha dichiarato in parlamento la premier alla vigilia del vertice europeo sulle nomine, presentando indirettamente questa carta come un possibile premio di consolazione.

Margini di manovra

Una vicepresidenza è quel che caldeggia pubblicamente da tempo Antonio Tajani, figura ponte tra Ppe e governo. Quanto al Green Deal, von der Leyen a Ecr ha ventilato «pragmatismo»; del resto l’approccio attento alle imprese è ciò che permette una mediazione anzitutto tra le varie componenti del Ppe, e poi coi Verdi, la cui ambizione è essere integrati in maggioranza in pianta stabile, e che perciò hanno offerto alla presidente il calumet del «piano industriale verde».

Mentre i Conservatori si sfrangiano – ai due antipodi del gruppo ci sono il Pis polacco, anti von der Leyen con furore, e i cechi del premier Petr Fiala, dichiaratamente a favore – i Fratelli d’Italia lasciano che sia l’inquilina di Chigi a dare il via sul voto ma non chiudono spiragli. Il ministro (e cognato) Francesco Lollobrigida ad esempio ha apprezzato «il cambio di passo» della «seconda fase» di von der Leyen, anche se non si sbilancia sul finale: «Elezioni di questo tipo sono una palude, c’è sempre un elemento di incertezza», dice.

Il tacito accordo coi Verdi rende la presidente meno incerta, per esempio; dunque un voto favorevole dei meloniani meno dirimente. Un sì a von der Leyen aizzerebbe gli alleati salviniani di governo. Un voto contrario del resto relegherebbe Fratelli d’Italia al margine coi Patrioti. Non solo Meloni, ma anche il Ppe, ha bisogno di una sponda: i Popolari puntano a un appoggio tattico per sbilanciare l’agenda a destra alla bisogna, e il valore aggiunto di un Ecr dimagrito nei numeri sta nel suo ruolo di intermediazione tra destre presentabili e meno. Questo giovedì la premier sceglierà se mantenere un margine di manovra oppure restare del tutto ai margini come ha già fatto in Consiglio europeo.

La bozza di agenda

A inizio settimana Domani è venuto a conoscenza delle trattative in corso tra i gruppi della maggioranza tradizionale – il Ppe di von der Leyen, socialisti e liberali – per elaborare poche paginette di agenda condivisa.

Sull’elezione di von der Leyen non si gioca la faccia solo lei ma pure socialisti e liberali, che per contenere il Ppe nel suo doppiogiochismo con l’estrema destra hanno dovuto reagire quando la presidente in campagna elettorale ha aperto troppo spudoratamente a Meloni.

«Niente cooperazione strutturale con Ecr», va predicando quindi da giorni Ursula von der Leyen, sapendo che questo mantra è un rito vuoto: con Ecr come gruppo, e cioè anche col Pis, neppure lei ha mai ventilato una maggioranza, mentre quella parolina – «strutturale» – non esclude appoggi tattici alla bisogna. Sia sulla sua rielezione, che in futuro sui dossier.

Il precedente di Metsola

In tutto questo c’è chi pratica la «cooperazione strutturale» con Meloni già da anni, indisturbata: è Roberta Metsola. Quando nel 2021 Manfred Weber ha avviato l’alleanza tattica con i meloniani, che si è concretizzata a gennaio 2022 con l’elezione di Metsola presidente e di un vice di Ecr, nessuno tra socialisti e liberali ha alzato barricate, sia per la diversa attenzione politica e mediatica (Meloni non era ancora premier e l’alleanza era denunciata allora solo da pochi, tra cui Domani) che per il diverso peso delle due presidenze. La guida d’aula non detta l’agenda dell’Ue.

La nazionalista maltese incarna da anni la rottura del cordone sanitario in Ue e lo slittamento più a destra del Ppe: è dopo la sua elezione nel 2022, e dopo le pressioni di Weber, che von der Leyen ha «cambiato fase» per citare Lollobrigida. Dopo aver ottenuto voti da conservatori e sovranisti, Metsola nel 2023 ha operato la virata ecumenica, tornando a predicare la maggioranza tradizionale coi socialisti e liberali per rassicurarli.

L’esito di tutto ciò è l’elezione amplissima, accompagnata dall’approvazione – tra i 14 vice – di due conservatori (riconfermato il lettone Robert Zile ed eletta Antonella Sberna di FdI). Metsola festeggia le «larghe maggioranze».

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