Salvini è corso in masseria dalla premier. L’Italia è tra i pochi paesi che devono ancora designare i commissari. Per Meloni il nome dovrà farle da parafulmine in Ue. Ecco perché Fitto sembra insostituibile a Bruxelles come lo è stato a Roma
Come te nessuno mai. Era il titolo di film e canzoni, prima di diventare, in quest’agosto 2024, il tormentone estivo di Giorgia Meloni. Al governo italiano o in Commissione europea, al pari o meglio di Raffaele Fitto a quanto pare non c’è nessuno.
Al fatto che Fratelli d’Italia sia alla prima esperienza di guida di un esecutivo si aggiunge lo stile accentratore della premier, che preferisce arroccarsi con pochi fedelissimi e fidarsi solo della propria famiglia (che si tratti della sorella Arianna messa a guida del partito, del cognato Francesco Lollobrigida o della ristretta famiglia politica di fedeltà elettiva).
Così ora Meloni non può lasciare Fitto a Bruxelles senza la certezza che ne valga la pena e che l’operazione sia definitiva: ecco perché l’Italia finisce relegata tra i pochissimi paesi i cui premier ancora non hanno spedito a Ursula von der Leyen la letterina che decreta la propria preferenza per i commissari.
La scadenza ufficiale sarebbe il 30 agosto, e la richiesta – lasciata inevasa da già troppi governi – è quella di segnalare sia un uomo e una donna. Emmanuel Macron ha ufficializzato il suo nome con un mese di anticipo, addirittura spedendo la lettera per Thierry Breton a fine luglio; Olaf Scholz non ha neppure avuto bisogno di farlo: si è assicurato per la Germania direttamente la presidenza. La Polonia, la Grecia, l’Irlanda, una sfilza di paesi ha già inviato i nomi, e persino l’Ungheria, che con Viktor Orbán gioca a fare la discola: la maggior parte dei governi mostra già chiarezza e padronanza.
Perché l’Italia no? Perché il governo non è ancora riuscito a blindare in contemporanea tre incognite che per un paese fondatore di solito non comportano questa fatica titanica.
Le tre debolezze
La prima riguarda le deleghe. «Non siamo alieni», aveva detto Meloni a novembre 2022 nella prima trasferta a Bruxelles (con Fitto al fianco, ça va sans dire); e invece tuttora il governo sconta la propria anomalia.
Anzitutto c’è la condizione di marginalità nella quale Meloni si è messa, e ha trascinato l’Italia, nella fase cruciale delle nomine Ue a giugno e luglio; condizione che ci espone di più anche alla competizione con altri paesi. La Francia si è mossa con strategia per prendersi l’industria. Ora la Polonia di Donald Tusk si dice pressoché certa di poter avere il bilancio Ue; e dire che da noi questa delega viene data per assodata per Chigi.
Neppure deleghe non troppo pesanti – come il bilancio appunto, appaiato magari con la coesione – sono per Chigi esenti da contesa; eppure in passato l’Italia è riuscita a ritagliarsi la concorrenza (con Monti), gli affari economici (Gentiloni) e persino la presidenza (Prodi). La faccenda non è solo di posizionamenti ma pure di merito: è difficile avanzare pretese quando si è i primi a trasgredirle. Ecco perché Fitto in persona ha gestito il dossier Bolkestein, cercando un compromesso perché l’Italia non risulti come la pecora nera della concorrenza, specialmente se è possibile ambire a questa delega.
Riuscirà il ministro a incassare un portafoglio di rilievo? Questa variabile è legata alle altre due: gli equilibri nella Commissione e nel governo. Se si fa una ricognizione si vedrà che meno di un quarto degli stati membri sostiene una commissaria donna, il che rende instabile l’ennesima candidatura maschile (perciò ci sono voci su Elisabetta Belloni). Dunque Meloni e Fitto cercano una sponda anche nell’amica e alleata Roberta Metsola.
Poi c’è il versante interno, legato agli altri due: dopo aver accentrato su Fitto – a sua volta accentratore – deleghe chiave per la gestione dei fondi Ue, Meloni può privarsene a Roma solo se la delega vale il costo. Svuotare la casella Fitto nel governo implica un difficile riassetto: a Roma come in Ue, di Fitto ce n’è uno. Perciò la designazione va di pari passo con la legittimazione, a fine agosto, della nomina in Consiglio dei ministri: per blindare la candidatura di Fitto ma pure gli scenari futuri. Va letta in questo contesto la visita di Matteo Salvini alla premier questa domenica in Puglia, e la telefonata dei due ad Antonio Tajani.
Un insostituibile parafulmine
Nel 2021, quando era capogruppo dei Conservatori, Fitto ha costruito da Bruxelles la cooperazione coi Popolari europei (la famiglia politica di von der Leyen), gestendo in prima persona il sabotaggio del gruppone delle destre estreme in cambio di un accreditamento di FdI come forza di governo da parte del Ppe.
Meloni non deve a Fitto solo il rapporto con Manfred Weber e il canale con von der Leyen, ma la stessa normalizzazione della sua destra estrema da parte loro (finché tiene). Spedire il ministro in Commissione non sarebbe solo un atto di riconoscenza ma anche un modo per avere un avamposto in Ue che copra le sue mosse a livello nazionale; e questa è un’altra anomalia meloniana. I commissari per trattato dovrebbero agire in modo indipendente dall’esecutivo; invece Meloni li interpreta come parafulmine del proprio. «Aiuti di più l’Italia», andava dicendo lei a Gentiloni.
Anche da Roma Fitto ha svolto questo ruolo di parafulmine: non solo ha seguito la premier nei rapporti brussellesi, ma ha accentrato su di sé tutte le deleghe relative ai fondi Ue (Affari europei, Sud, politiche di coesione, Pnrr); Nello Musumeci sperava di diventare ministro del Sud e si è ritrovato al Mare. L’accentramento ha un contraltare: ovunque vada, Fitto a Meloni appare indispensabile.
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