L’attentato terroristico nel nord del Kosovo non ha segnato alcun punto di svolta: l’impostazione del dialogo è la stessa di prima e non c’è per ora all’orizzonte l’intenzione di prendere delle misure contro la Serbia per il suo presunto coinvolgimento nell’operazione
È grande la confusione sotto il cielo di Bruxelles. A poco più di un mese dall’attentato terroristico nel nord del Kosovo ad opera di gruppi paramilitari serbi, l’Ue non è riuscita a rilanciare il dialogo tra Belgrado e Pristina che giace su un binario morto da mesi. E questo nonostante l’appello lanciato ieri dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a Pristina, seconda tappa del suo tour nei Balcani, affinché Serbia e Kosovo attuino l’intesa concordata a marzo. Né è bastato l’intervento di Giorgia Meloni, Emmanuel Macron, Olaf Scholz, Josep Borrell e Charles Michel a margine del vertice europeo la settimana scorsa.
Un incontro, articolatosi in due riunioni separate con il presidente serbo, Aleksandar Vucic, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, cui sono seguiti altri bilaterali con il mediatore europeo, Miroslav Lajcak. Una frenetica danza diplomatica che si è tradotta nell’ennesimo nulla di fatto. La tendenza registrata finora non fa ben sperare su quel che seguirà: non c’è fallimento negoziale che non si sia riflesso sul campo, con intensità sempre più acuta, dagli scontri di Zvecan del 29 maggio in cui sono rimasti feriti oltre 90 soldati della missione Nato in Kosovo (Kfor) all’attentato di Banjska del 24 settembre in cui hanno perso la vita un agente di polizia kosovaro e tre assalitori. Ma andiamo per gradi.
Il piano di Bruxelles
Con l’incontro a Bruxelles la scorsa settimana, l’intenzione dei leader europei era uscire dallo stallo facendo leva su due punti: il riconoscimento di fatto del Kosovo da parte di Belgrado e l’istituzione di un regime speciale per la tutela dei serbi in Kosovo da parte di Pristina. Il tutto nella prospettiva di una futura adesione dei due paesi all’Ue.
Una linea ribadita ieri anche da von der Leyen a Pristina. Questa è stata grosso modo l’impostazione del dialogo come condotto finora, con qualche aggiunta: per la prima volta, si chiede apertamente che la Serbia riconosca di fatto l’indipendenza della sua ex provincia. Inoltre, c’è una proposta concreta sull’istituzione dell’Associazione delle municipalità serbe del Kosovo su cui si registra una prima apertura di Kurti.
Ma i nodi restano. Il primo si chiama Serbia. Fin dal riavvio del dialogo, Belgrado ha posto come condizione per proseguire le trattative l’istituzione dell’associazione dei comuni serbi, un punto concordato dieci anni fa e rimasto lettera morta. E, cosa più importante, ha sempre negato la disponibilità a togliere il suo veto all’adesione del Kosovo all’Onu, la quale implica il suo riconoscimento di fatto. Il secondo nodo si chiama Kosovo che ha impostato la trattativa in modo opposto, insistendo sul riconoscimento e facendo venire dopo tutto il resto. E soprattutto, facendo leva su una presunta equazione tra Serbia e Russia e tra Kosovo e Occidente per gettare discredito su Belgrado a vantaggio di Pristina in termini di credibilità.
Il ruolo di Meloni
Il terzo nodo, quello più importante, si chiama Ue, incapace finora di avvicinare le posizioni tra le due parti e questo almeno per due ordini di motivi. Il primo è una sostanziale indulgenza verso le richieste di Belgrado, giuridicamente inoppugnabili, ma che di fatto rappresentano un tentativo per rinviare sine die l’accordo con il Kosovo, come dimostra da ultimo la decisione di indire delle elezioni anticipate, in programma il 17 dicembre, a solo un anno e mezzo dalle ultime.
La seconda è l’inconsistenza stessa della prospettiva di adesione: i negoziati della Serbia sono in un pantano da tempo, il Kosovo non è nemmeno riconosciuto da cinque Stati membri dell’Ue.
L’attentato terroristico nel nord del Kosovo non ha segnato alcun punto di svolta: l’impostazione del dialogo è la stessa di prima e non c’è per ora all’orizzonte l’intenzione di prendere delle misure contro la Serbia per il suo presunto coinvolgimento nell’operazione. «Prima le prove, poi le misure» è il mantra che risuona nei corridoi a Bruxelles e il tema, secondo fonti diplomatiche, non sarebbe nemmeno in discussione. Ciò nonostante le accuse di appeasement verso la Serbia rivolte ai mediatori Ue e Usa e le pressioni del Parlamento Ue in tal senso. In questo ginepraio, l’Italia è parsa andare un po’ al rimorchio di Francia e Germania, i due paesi che hanno elaborato la proposta di accordo tra Serbia e Kosovo sulla base dell’intesa siglata tra Germania dell’Est e dell’Ovest durante la guerra fredda.
La presenza (in ritardo) di Meloni al tavolo non deve trarre in inganno: il formato scelto è quello tradizionale del Quintetto con l’assenza degli Usa. Quel che manca è una visione d’insieme per la regione, che vada al di là dell’obiettivo, più volte sbandierato da Roma, di ridurre i flussi migratori lungo la rotta balcanica, o di scongiurare l’apertura di un secondo fronte in Europa. Una visione di più ampio respiro che superi la logica securitaria e spinga i paesi dei Balcani a uscire da un dopoguerra infinito prima che sia troppo tardi.
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