- Siamo arrivati al trentesimo anniversario del mercato unico europeo, che è fondato sulla libera concorrenza. Ed è sempre più evidente una contraddizione: in teoria in questo mercato comune tutti sono uguali, ma nella pratica – parafrasando Orwell – alcuni sono più uguali di altri.
- Il tema degli aiuti di stato, che proprio in queste settimane è oggetto di negoziato in vista di una riforma, mostra le sperequazioni in corso, e fino a che punto potrebbero aumentare.
- Mentre la Germania la fa da padrona, e la Francia insegue le sue ambizioni, all’Italia restano le briciole.
Siamo arrivati al trentesimo anniversario del mercato unico europeo, che è fondato sulla libera concorrenza. Ed è sempre più evidente una contraddizione: in teoria in questo mercato comune tutti sono uguali, ma nella pratica – parafrasando Orwell – alcuni sono più uguali di altri. Il tema degli aiuti di stato, che proprio in queste settimane è oggetto di negoziato in vista di una riforma, mostra le sperequazioni in corso, e fino a che punto potrebbero aumentare. Mentre la Germania la fa da padrona, e la Francia insegue le sue ambizioni, all’Italia restano le briciole.
Berlino mangia-tutto
Le tante defezioni al World Economic Forum di Davos – per l’Europa, l’unico leader di peso è Olaf Scholz – sono apparse a molti come un indice della globalizzazione in crisi; ma non è detto che le alternative saranno più eque. Le crisi multiple – prima la pandemia, poi i prezzi dell’energia – hanno convinto anche i più ortodossi sostenitori del libero mercato che il comparto industriale andasse sostenuto con l’intervento pubblico; ma il ripensamento della globalizzazione a ogni costo, in mano alla leadership attuale, finisce per produrre ulteriori sperequazioni.
Ben l’80 per cento degli aiuti di stato recenti si concentrano su Germania e Francia. Durante la pandemia, Bruxelles ha concepito una “cornice temporanea di crisi” che doveva appunto costituire una deroga momentanea, ma che è stata rinfrescata più volte, e che sta diventando la nuova normalità. Sotto questo regime, la Commissione europea ha dato il via ad aiuti di stato per l’importo di quasi 700 miliardi di euro, ma oltre la metà delle richieste è arrivata dalla Germania; dalla Francia, ben un quarto. L’Italia non è certo irrilevante sul piano produttivo, eppure gli aiuti nostrani sono briciole – neppure il 5 per cento di quell’ammontare complessivo – rispetto agli altri due paesi fondatori.
Come se non bastasse, sul finire dell’anno passato, in piena crisi per i prezzi dell’energia, mentre frenava sul tetto ai prezzi del gas e su un piano di indebitamento comune, il governo Scholz – una coalizione che comprende la componente liberale – ha lanciato una imponente iniezione di risorse per proteggere le proprie imprese. Una distorsione del mercato comune, a detta di tanti; eppure Bruxelles ha lasciato correre.
Quale riforma degli aiuti
La commissione von der Leyen è arrivata a ventilare una nuova stagione di investimenti pubblici. L’innesco perfetto è l’intervento dell’amministrazione Biden, l’Inflation Reduction Act, che è stato accolto da Emmanuel Macron come una mossa «poco amichevole», ma che rappresenta l’alibi perfetto per lanciare la «stratégie “Made in Europe”» caldeggiata dalle autorità francesi con un documento dettagliato siglato il 9 gennaio. Negli stessi giorni, il premier belga Alexander De Croo rilasciava dichiarazioni infiammate sui tentativi «aggressivi» degli Usa – «quasi intimidatori» – per convincere le imprese europee a delocalizzare negli States, con l’esca dei sussidi.
Il piano di Macron, e del suo fedelissimo a Bruxelles, l’ex manager Thierry Breton oggi commissario al Mercato interno, è quello di favorire gli investimenti europei a beneficio dei campioni industriali. A marzo scorso, durante il summit europeo di Versailles, sia Macron che Mario Draghi avevano tentato la strada di un debito comune su direttrici specifiche; all’epoca, si parlava di difesa, di energia, e l’allora premier italiano se n’era andato concludendo che «non è il momento giusto».
Nel documento di gennaio, le autorità francesi invocano uno «choc di modernizzazione degli aiuti di stato» e «finanziamenti all’altezza di una inedita politica industriale europea». Parigi propone di individuare i settori chiave, «su modello del Chips Act», e di intervenire poi con «leve regolatorie e finanziarie»: basta freni agli aiuti di stato, e magari fondi Ue dedicati.
L’Italia e gli squilibri
Dopo le tensioni franco-tedesche, rese evidenti dal rinvio del vertice ottobrino di Fontainbleau, ora sugli aiuti i due colossi sembrano trovare un’intesa: il 2023 comincia con il sì di Scholz a «nuovi strumenti di finanziamento comuni», da dirigere in particolare sulla transizione verde (questo è del resto l’argomento che regge l’Ira di Biden).
Con l’argomento green, Breton ha provato a sedurre anche il governo socialista spagnolo. Ma fino a che punto lo «choc» sugli aiuti di stato favorirebbe l’Italia e altri paesi? A palazzo Chigi, Raffaele Fitto, Adolfo Urso e Giancarlo Giorgetti hanno ben presente il rischio concreto di distorsione del mercato comune, già compromesso; lo spazio fiscale dell’Italia non è certo quello della Germania, a maggior ragione con una riforma del patto di Stabilità che – se rimane in linea con quanto annunciato dalla Commissione a fine anno – è già monca.
Il ministro Urso la prossima settimana sarà a Bruxelles: la priorità del governo è un fondo sovrano alimentato con risorse comuni, e uno schema Sure 2.0 che già da tempo Gentiloni e Breton sostengono.
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