Dopo aver fatto da sponda a Meloni sugli accordi anti immigrazione, Ursula von der Leyen dichiara guerra globale agli scafisti. Intanto in Francia un presidente senza maggioranza presta il fianco alle destre per far passare la legge sui migranti
Non è Giorgia Meloni ad aver ottenuto successi sui migranti; tanto il memorandum tunisino quanto il patto albanese sono fatti della materia evanescente della propaganda. Ma è il centrodestra una volta considerato “moderato” o “liberale” a prestare il fianco alle destre estreme. Lo si vede tanto a Bruxelles che a Parigi.
La Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen si presta al gioco di prestigio meloniano; introietta la stessa retorica sulla lotta ai trafficanti, e fa l’ennesima proposta destinata a risolvere ben poco. Il presidente francese, in mancanza di una maggioranza assoluta in aula, prova a mettere comunque a segno il suo fantomatico progetto di legge sull’immigrazione; che all’atto pratico si rivela l’ennesimo esercizio di rincorsa a destra per i più destrorsi del macronismo, a cominciare da Gérald Darmanin.
Anche i centristi o moderati di una volta – che si tratti dei popolari a destra o dei macroniani nel campo liberale – hanno scelto l’immigrazione come leitmotiv in vista delle europee di giugno e delle elezioni nazionali.
Ovviamente questa è una trappola. Come ha notato il politologo olandese Cas Mudde, uno dei più grandi esperti di destre estreme, l’esito delle elezioni d’Olanda mostra che quando si introiettano gli argomenti delle destre ultrà, gli elettori preferiscono l’originale alle copie: la lezione olandese, ma pure quella svedese, è che «se si fanno le elezioni sui temi dell'estrema destra, in particolare il "problema" dell'immigrazione, vince l'estrema destra».
Dunque è esattamente il contrario di ciò che va dicendo il leader dei popolari Manfred Weber, capolista alle europee 2024 per i cristianosociali bavaresi, quando afferma che «Wilders guadagna terreno perché la sinistra non si sveglia sull’immigrazione».
La sponda di von der Leyen
«Che il memorandum con l'Albania possa essere un modello anche per altri paesi non lo dico io ma l'ho sentito dire qui». Lo ha «sentito dire» qui ovvero a Bruxelles il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi.
Esistono in effetti due livelli paralleli nelle dinamiche politiche europee. Da una parte ci sono i diritti – quelli internazionali e quelli difesi in modo troppo spesso solitario dalla commissione Libertà civili dell’Europarlamento – e dall’altra c’è la pratica politica di Ursula von der Leyen.
La presidente di Commissione – grande accentratrice di potere, proveniente dai popolari europei e pragmatica nelle relazioni coi capi di governo in vista di un bis nel 2024 – ha offerto numerose sponde alla premier italiana Giorgia Meloni.
Lo ha fatto col memorandum tunisino, ignorando l’irritazione del Consiglio per l’iter inusuale e la mancanza di condivisione; e lo ha fatto glissando ed evitando scontri sullo scenario albanese.
Questo martedì, von der Leyen ha pure fatto un passo ulteriore nella sua adesione alla retorica meloniana, facendo eco alla sua «guerra globale agli scafisti in tutto il globo terracqueo». Anche von der Leyen affina le sue arti affabulatorie tuonando contro «i trafficanti illegali» ed esibendo intraprendenza a riguardo.
In realtà alla Commissione Ue sono serviti anni per portare avanti una riforma del patto di migrazione e asilo che già in bozza – cioè già nella proposta von der Leyen dell’autunno 2020 – era tutt’altro che una riforma di Dublino.
Questo martedì, alla Conferenza internazionale per un’alleanza globale contro i trafficanti, la presidente ha lanciato la sua proposta di direttiva e regolamento contro il traffico di esseri umani: in sostanza, un rafforzamento delle agenzie Ue a partire da Europol e crismi comuni tra gli stati membri per il reato in questione.
Intanto Piantedosi lancia appelli sui rimpatri, ricordandoci implicitamente che senza accordi sui rimpatri anche il progetto albanese è solo un boomerang, perché chi non può essere rimpatriato viene rispedito da Tirana a Roma.
Il progetto di Darmanin
«Una minoranza di estrema destra sarà quindi in grado di dettar legge alla maggioranza europeista?», domandava provocatoriamente pochi giorni fa il capogruppo dei liberali di Renew, Stéphane Séjourné, macroniano fedelissimo e disposto a far da capolista alle europee mentre il suo campo di riferimento è a rischio di scomposizione.
In realtà i macroniani stanno già correndo verso destra, come mostra bene il caso del progetto di legge sull’immigrazione. Si tratta di una bandiera di Darmanin, l’ex portavoce di Sarkozy che da ministro degli Interni macroniano si è distinto come l’ala dura, al punto da definire «troppo morbida» Marine Le Pen.
Poiché Macron non ha maggioranza assoluta in aula, e visto che Darmanin punta alla competizione a destra specialmente se la formazione centrista macroniana dovesse scomporsi, il ministro non ha esitato a indurire anche il progetto di legge, pur di attirare a sé pezzi di destra.
Così nel passaggio al Senato, il testo rende più difficile il ricongiungimento familiare e prevede prestazioni sanitarie statali «solo se urgenti» (questione cioè di vita o di morte) per chi non ha il permesso di soggiorno; si noterà la eco lepeniana, in questa mutazione da “aiuto medico statale” ad “aiuto urgente vitale”.
La versione “dura” è arrivata quindi all’Assemblea nazionale; Darmanin festeggia da quando un gruppo di 17 deputati repubblicani ha firmato una lettera aperta per sostenere il suo progetto di legge.
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