Come Domani ha rivelato nel 2023, esiste un patto tacito tra Fratelli d’Italia e Lega sul futuro dei gruppi europei: dove va Fidesz, non vanno i romeni di Aur. Quando la premier ha fatto entrare Aur nei Conservatori, è diventato evidente che Orbán ne sarebbe rimasto fuori. Meloni lo ha beffato, superando il suo maestro nell’arte del bluff. Perché? Per rafforzare la cooperazione col Ppe
«Il futuro non è ancora chiaro, ma sarà luminoso»: Viktor Orbán ha sfoderato la sua arte del bluff, a inizio settimana a Bruxelles, quando è stato interrogato da Domani sulla ventura collocazione del suo partito Fidesz in Ue. Ma adesso il despota ungherese, grande ispiratore di Giorgia Meloni, deve fare i conti col fatto che l’allieva superi il maestro, pure nell’arte del bluff.
Orbán si è fatto beffare dall’amica di sempre: la premier ha tenuto lo spiraglio dei Conservatori aperto per lui quando imbonirlo le serviva a mostrare il proprio potere di intermediazione ai più rilevanti gruppi e leader europei (anzitutto ai Popolari, a Olaf Scholz e Emmanuel Macron). Dopodiché per la stessa ragione – cioè per potenziare la propria influenza col Ppe in fase di nomine – ora chiude la porta di Ecr in faccia a Orbán. Ovviamente il bluffeur ante litteram prova quindi a far credere di essere stato lui a chiudere, come aveva fatto nel 2021 uscendo dal Ppe poco prima di esserne cacciato.
La verità è che è Meloni ad averlo lasciato fuori. La conferma è arrivata questo mercoledì, quando il gruppo conservatore Ecr ha deciso di includere anche gli eletti romeni di Aur. Come Domani ha rivelato nel 2023, vale un patto tra Fratelli d’Italia (che guida Ecr) e la Lega (che fa parte del gruppo sovranista Id): dove fosse andato Aur, non si sarebbe collocato Fidesz di Orbán, e viceversa (questioni di incompatibilità tra propagande in tema di Transilvania).
Ecco perché alla convention salviniana di Firenze, a dicembre, il leader di Aur era parso ondivago: bisognava risolvere la variabile di Fidesz per poter sciogliere il rebus. Quel che la destra italiana aveva di fatto garantito a Orbán – al momento nel gruppo misto – è che qualcuno lo avrebbe accolto. Per ragioni strategiche, il despota ungherese puntava sui Conservatori, e ha corteggiato a lungo Meloni. Ma lei gli ha preferito Aur, non perché questo partito non crei ragioni di imbarazzi: ha ramificazioni fasciste, no vax e filorusse, tanto che questo giovedì il capogruppo di Ecr Nicola Procaccini ha dovuto dire che chi entra deve firmare un impegno filoucraino. Aur genera meno problemi perché non fa fuggire da Ecr altre delegazioni e non complica i rapporti, anzitutto col Ppe.
La premier illusionista
Proprio i rapporti col Ppe sono dirimenti per Meloni, perché è da lì che passa la possibilità di entrare nelle dinamiche decisionali dell’Ue. La strategia utilizzata dalla premier con Orbán è una replica di quella adottata nel 2021 con tutta la congrega sovranista: anche in questo caso la leader ha tenuto tutti i fili aperti per poi chiudere le trame a proprio vantaggio. Così era successo tre anni fa: la presidente dei Conservatori europei aveva seguito fino all’ultimo tutti i movimenti dei partiti di Ecr e di Id per formare una alleanza delle destre estreme. Poi la aveva boicottata, facendo leva anche sulle posizioni divergenti sulla Nato, e aveva fatto valere con il Ppe il proprio lavoro di disarticolazione del “gruppone”, ottenendone in cambio una cooperazione.
Con Fidesz è successo qualcosa di analogo. Per molti mesi dall’esordio della guerra in Ucraina, Meloni aveva schivato pubblicamente il premier filorusso, pur mantenendo i rapporti. A settembre è tornata a incontrarlo a Budapest; nel frattempo i suoi alleati polacchi del Pis hanno convinto Orbán che una volta superate le elezioni polacche avrebbe avuto chance di entrare in Ecr. Il clou è avvenuto tra dicembre 2023 e febbraio 2024. Il premier filorusso teneva in ostaggio col suo veto i leader europei che dovevano dare il via ai negoziati con Kiev e stanziarle aiuti. Meloni lo incontrava, e poi riferiva a Macron e Scholz: «Io parlo con tutti», vantava. Quando l’assenza concordata di Orbán ha dato semaforo verde all’Ucraina in Ue, la premier ha presentato come un suo successo quello di aver riportato la pecora nera nell’ovile atlantista. «Dopo le europee entreremo in Ecr»: così diceva Orbán a febbraio, in un gioco di bluff reciproci con Meloni.
Tirare le fila
«Se Orbàn entra in Ecr, viene superata una linea rossa», e cioè la destra fiamminga di Nva lascia il gruppo: lo aveva detto a Domani l’ex ministro delle finanze belga Johan Van Overtveldt, prima di trattenersi in un lungo colloquio privato con l’entourage meloniano.
Oltre a generare fughe, l’ingresso di Fidesz avrebbe complicato la cooperazione tra Meloni e il Ppe, che lavora per normalizzare FdI e per disarticolare le destre estreme tra loro, così da restare il perno. La premier continuerà a interloquire con Orbán, usandolo come sponda o spauracchio in base all’occasione (compreso il vertice sulle nomine); ma non lo vuole in Ecr.
«Non condivideremo il gruppo con Aur!», è la versione ex post di Fidesz per salvare la faccia. Un ingresso di Orbán in Id è stato nel frattempo facilitato dalla cacciata di Alternative für Deutschland, con la quale lui non avrebbe condiviso il gruppo per questioni di buoni rapporti con il comparto industriale tedesco.
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