Alla vigilia del Consiglio europeo, Varsavia e Budapest si accordano con la presidenza tedesca per disinnescare il veto. La via di uscita è una dichiarazione interpretativa. L’obiettivo del premier ungherese è ritardare l’applicazione del meccanismo per lo stato di diritto senza farlo saltare
- Il 10 e 11 dicembre il Consiglio europeo riprende in mano la questione del bilancio europeo e dei fondi di ristoro. Lo fa con il veto di Ungheria e Polonia disinnescato.
- La via di uscita è una dichiarazione interpretativa, che non cancella il meccanismo dello stato di diritto ma mira a ritardarne l’applicazione, magari così a lungo da scavallare le prossime elezioni in Ungheria. Budapest e Varsavia sperano nel ricorso alla Corte di giustizia per guadagnare tempo.
- Non potendo modificare il meccanismo che l’Europarlamento difende, la strategia concordata con la presidenza tedesca è dilatoria.
Questo 10 e 11 dicembre il Consiglio europeo riprende in mano la questione del bilancio europeo e dei fondi di ristoro. Lo fa con il veto di Ungheria e Polonia disinnescato. La via di uscita è una dichiarazione interpretativa, che non cancella il meccanismo dello stato di diritto ma rischia di ritardarne l’applicazione. Il premier ungherese, Viktor Orbán, può vendere una vittoria alla sua opinione pubblica, ma rimane l’accordo fra presidenza tedesca ed Europarlamento stretto il 5 novembre, che prevede un nesso tra fondi Ue e rispetto dello stato di diritto (equilibrio fra poteri, indipendenza dei giudici dall’esecutivo e così via). Budapest e Varsavia sono già sotto accusa per aver violato la rule of law, e di fronte alla condizionalità avevano minacciato di bloccare l’intero pacchetto di fondi. Il 16 novembre hanno manifestato per la prima volta l’intenzione di usare il potere di veto.
Da allora, è stata una giostra di incontri. Il premier polacco, Mateusz Morawiecki, ha siglato per iscritto l’alleanza con Orbán: «La Polonia non accetterà proposte irricevibili per l’Ungheria, e viceversa», hanno scritto i due. Nel frattempo lo scandalo di un’orgia gay a Bruxelles ha fatto cadere l’uomo di Orbán in Europa, József Szájer, e ha minacciato di travolgere anche il Pis, il partito di governo polacco. A quel punto Varsavia ha tentennato, con il vicepremier Jaroslaw Gowin che dava segnali di cedimento. Perciò il premier ungherese Viktor Orbán si è stavolta precipitato lui a Varsavia. Ha affrontato Morawiecki, ma pure il leader del Pis, Jaroslaw Kaczynski, l’estremista della coalizione di governo polacca Zbigniew Ziobro (pro veto) e Gowin stesso. Arrivati all’incontro virtuale del 7, è emersa l’urgenza di dare una risposta alla presidenza tedesca, che nel weekend ha fatto arrivare il suo aut aut: o viene sollevato il veto, o si procederà con un accordo a 25, escludendo Polonia e Ungheria, e distribuendo i fondi attraverso un accordo intergovernativo o la cooperazione rafforzata.
A quel punto alle due capitali dell’est è diventato chiaro il rischio dell’isolamento, e di perdere i soldi, che sul fronte interno l’opinione pubblica reclama. Nel pomeriggio di questo mercoledì, hanno concordato con Berlino una via di uscita dal veto, che va accolta dagli altri governi. La dichiarazione interpretativa evidenzia che la violazione dello stato di diritto deve avere un impatto effettivo sugli interessi finanziari dell’Ue (la violazione dei diritti passa in secondo piano); ogni stato può contestare il meccanismo di condizionalità davanti alla Corte di giustizia Ue.
Polonia e Ungheria sperano proprio nel ricorso alla Corte per guadagnare tempo; non potendo modificare il meccanismo dello stato di diritto, che l’Europarlamento difende, la strategia concordata con la presidenza tedesca è dilatoria. Orbán mira a ritardarne l’applicazione effettiva, possibilmente abbastanza a lungo da scavallare le prossime elezioni in Ungheria.
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