- In vista del Consiglio straordinario dei ministri dell’Interno del 25 novembre, la Commissione europea ha presentato un piano di azione per il Mediterraneo centrale.
- Piantedosi si è detto «soddisfatto» per i contenuti del Piano, ma i motivi di soddisfazione non paiono così fondati.
- Il Piano di azione conferma che i soccorsi si concludono con lo sbarco nel porto sicuro più vicino. L’Ue non accoglie l’impostazione di Meloni e Piantedosi, secondo i quali anche la nave è un posto sicuro e non è scritto da nessuna parte che debba approdare in Italia.
In vista del Consiglio straordinario dei ministri dell’Interno, convocato per il prossimo 25 novembre a Bruxelles, la commissaria europea agli affari interni, Ylva Johansson, ha presentato un piano di azione dell’Unione europea per il Mediterraneo centrale.
Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, si è detto «soddisfatto», per i contenuti del piano. «Il testo mette al centro della discussione alcune importanti qUestioni in tema di gestione dei flussi migratori» – ha detto il ministro – «e lo fa nella prospettiva già auspicata dal governo italiano». Ma è davvero come dice Piantedosi? E cosa ci si può aspettare dal vertice europeo?
Il contenuto del Piano di azione
Il documento dell’Unione europea prevede 20 azioni «volte ad affrontare le sfide immediate e in corso lungo la rotta del Mediterraneo centrale», articolate intorno a tre pilastri. Il primo è il «rafforzamento della cooperazione con i paesi partner e le organizzazioni internazionali». Si fa riferimento, in particolare, a «finanziamenti esterni per affrontare le sfide migratorie».
Ciò significa, tra l’altro, «rafforzare le capacità di Tunisia, Egitto e Libia, in particolare, di sviluppare azioni mirate congiunte per prevenire le partenze irregolari, sostenere una gestione più efficace delle frontiere e della migrazione e rafforzare le capacità di ricerca e salvataggio». Si tratta della cosiddetta esternalizzazione delle frontiere, tesa a impedire che migranti arrivino nel territorio dell’Unione, delegando a paesi terzi il controllo dei confini, quindi dei flussi migratori. In questo modo, eventuali violazioni dei diritti umani – non si fa distinzione tra chi avrebbe diritto a protezione internazionale e chi, invece, no – restano a carico di tali paesi. Insomma, un modo per non “sporcarsi le mani”.
Queste politiche, nelle quali l’Unione ha investito ingenti risorse, non sono una novità. All’inizio del 2016 è stato finanziato l’accordo con la Turchia per fermare le persone provenienti per lo più dalla Siria in guerra e dai conflitti di Afghanistan e Iraq. Il modello è stato seguito anche per bloccare le partenze sulla rotta del Mediterraneo centrale, mediante risorse rivenienti dal Fondo fiduciario per l’Africa.
In particolare, tramite il programma “Support to Integrated Border and Migration Management in Libya” (Ibm) del luglio 2017, l’Ue provvede a formazione e supporto delle autorità costiere libiche per contrastare l’immigrazione irregolare. In quest’ottica si colloca il Memorandum tra Italia e Libia, finalizzato ad «arginare i flussi di migranti illegali», rinnovato nei giorni scorsi.
L’Italia è impegnata, tra l’altro, a cooperare nella predisposizione di campi di accoglienza in Libia – campi in cui avvengono «indicibili orrori» (Andrew Gilmour, Segretario generale per i Diritti umani dell’Onu) – nonché a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici, mediante motovedette, addestramento del personale ecc.. Per questo tipo di politiche, l’azione dell’Ue è conforme alla linea più volte affermata dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Ricerca e salvataggio
Il secondo pilastro riguarda «un approccio più coordinato alla ricerca e al salvataggio». L’Ue ribadisce i principi fondamentali del diritto del mare. «Fornire assistenza a qualsiasi persona trovata in difficoltà in mare fino al punto di sbarco sicuro, indipendentemente dalle circostanze che hanno portato le persone a trovarsi in tale situazione, è un obbligo giuridico per gli stati membri dell'Ue, come stabilito dal diritto internazionale consUetudinario e convenzionale e dal diritto dell'Unione».
In altri termini, il Piano di azione conferma che i salvataggi si concludono sulla terraferma, con lo sbarco nel posto sicuro più vicino, e non può che essere un paese costiero: gli stati dell’Unione con il porto sicuro più vicino devono aprirlo alle navi di soccorso. Appare palese che l’Ue non accoglie l’impostazione di Meloni e Piantedosi, secondo i quali anche la nave è un posto sicuro e «non è scritto da nessuna parte» che le navi di soccorso debbano approdare in Italia, e non in Francia, ad esempio. Peraltro, il fatto che l’Ue sottolinei l’irrilevanza delle circostanze che portano le persone a richiedere assistenza in mare sembra legittimare l’opera svolta dalle navi delle organizzazioni non governative (Ong).
Nell’Action Plan si dichiara, altresì, la necessità di «coordinamento tra tutti gli attori e le parti interessate», che deve avvenire, tra l’altro, mediante lo scambio di informazioni «in particolare tra gli stati costieri e di bandiera, anche al fine di facilitare una migliore cooperazione tra gli stati membri e le navi di proprietà o gestite da soggetti privati».
È l’unico punto nel quale il documento menziona gli stati di bandiera. Anche in qUesto caso l’Ue sembra non prendere in considerazione quanto sostenuto da Piantedosi – secondo il quale, quando una nave salva migranti in mare, competerebbe allo stato di bandiera farsi carico dell’accoglienza e dell’esame delle domande di asilo – forse perché l’opinione del ministro contrasta con le norme e la giurisprudenza in tema di operazioni di soccorso in mare, come spiegato in articoli precedenti.
Nel documento si afferma, inoltre, di voler coinvolgere l'Organizzazione marittima internazionale nella predisposizione di «linee guida per le navi che si dedicano in modo particolare alle attività di ricerca e salvataggio».
Non c’è un richiamo espresso alle Ong, né a un codice di condotta europeo per le loro navi – cui sembra fare riferimento la recente nota congiunta di Italia, Cipro, Grecia e Malta – anche se le linee guida potrebbero tradursi in qualcosa di simile. Non ci sono elementi circa l’orientamento regolatorio dell’Ue. Di certo un eventuale codice, essendo un atto di soft law, cioè privo di forza di legge, non potrebbe violare i principi stabiliti da convenzioni internazionali, ribaditi nello stesso Action Plan.
La solidarietà
Il terzo pilastro del piano di azione riguarda il meccanismo di solidarietà – volontario e temporaneo per un anno – concordato il 22 giugno 2022, che abbiamo spiegato in un articolo precedente. Il piano propone di accelerarne l’attuazione.
Al riguardo, va ricordato che il meccanismo prevede l’accoglienza dei migranti come una delle ipotesi di solidarietà, ammettendo forme alternative (finanziamenti di operazioni di supporto logistico, di rimpatri ecc.). Anche in questo caso, la Commissione si limita a ribadire quanto già indicato dal meccanismo, senza sostanziali innovazioni, salvo un impegno «per ottenere procedure più efficienti e rapide».
Il fatto che il Piano continui a menzionare espressamente misure di solidarietà alternative all’accoglienza da parte dei paesi europei dimostra che, pure sotto questo profilo, per l’Ue non è sul tavolo la richiesta italiana di meccanismi obbligatori, e non meramente eventuali e volontari, di ricollocamento dei migranti.
Al vertice europeo si verificheranno in concreto le possibilità di intesa. Ma, al momento, i motivi di soddisfazione vantati da Piantedosi non paiono così evidenti.
© Riproduzione riservata