Il punto del Piano Draghi che più ha attirato l’attenzione sono gli 800 miliardi di investimenti da finanziare con debito comune europeo. Proposta bollata come improponibile dal ministro delle Finanze tedesco: sarebbe tuttavia un errore madornale se per questa ragione la classe dirigente europea considerasse il Piano un’interessante analisi, ma irrealizzabile. Perché Draghi non solo documenta in modo convincente come la perdita di competitività dell’Europa metta a repentaglio il benessere dei suoi cittadini e quindi la coesione sociale, ma indica anche concretamente tutte le misure e le politiche da adottare per renderla competitiva.

L’Europa rappresenta il 17 per cento del Pil mondiale, contro il 26 degli Usa, e uguale alla Cina; vanta un migliore sistema sanitario ed educativo, stato sociale, tutela dei diritti, e standard ambientali; e una distribuzione del reddito meno concentrata che favorisce l’inclusione sociale. Tuttavia, il reddito pro capite a potere di acquisto costante non solo è inferiore del 34 per cento a quello degli Usa, ma il gap è aumentato nel tempo (era 31 nel 2002): per il 70 per cento dovuto a una minore produttività. Problema destinato ad acuirsi con l’invecchiamento e declino della popolazione. Esportazioni, basso costo dell’energia e assenza di rischi geopolitici, avevano comunque assicurato la crescita economica europea; tre fattori che però sono diventati oggi un ostacolo. I rischi geopolitici hanno ridotto il commercio internazionale, e la Cina è diventato un concorrente diretto in 40 per cento dei settori industriali europei, accumulando un avanzo commerciale di 220 miliardi. Con l’invasione dell’Ucraina sono cessate le forniture russe di gas; e oggi il costo dell’elettricità in Europa è il doppio che negli Usa, e il quadruplo quello dello del gas. I rischi geopolitici accentuano la vulnerabilità delle importazioni di energia, minerali e tecnologia da cui dipende l’industria europea.

Il Piano è un documento di 400 pagine, ma la prima parte ne contiene una sintesi che andrebbe letta per intero. Cinque le aree di intervento: innovazione, decarbonizzazione, sicurezza, finanziamento degli investimenti e governance comunitaria.

L’Europa ha una struttura industriale statica: non è stata creata nessuna nuova impresa negli ultimi 50 anni che oggi vale più di 100 miliardi; mentre gli Usa ne hanno create sei da oltre 1.000 miliardi. L’incapacità di innovare ci ha fatto perdere la rivoluzione tecnologica: solo quattro delle maggiori 50 imprese tecnologiche sono Europee. Il Piano prevede un ampio spettro di misure: stabilire a livello comunitario priorità e settori di intervento concentrando le risorse pubbliche per ricerca e sviluppo, oggi frammentate a livello nazionale (100 miliardi contro i 130 degli Usa, di cui appena il 7 per cento è deciso a livello comunitario); promuovere il venture capital (solo il 5 per cento del totale mondiale) favorendo gli investimenti degli investitori istituzionali e riducendo i costi della regolamentazione; abbattere le barriere all’interno dell’Europa che impediscono le aggregazioni indispensabili alle imprese per raggiungere le dimensioni necessarie a sostenere il costo degli investimenti in tecnologia e beneficiare delle economie di scala; ridefinire la politica antitrust per favorire queste aggregazioni; promuovere l’istruzione scientifica (abbiamo 850 laureati in materie scientifiche per milione di abitanti contro i 1.100 degli Usa).

L’elevato costo dell’energia riduce la competitività di molti settori industriali; e la carenza di fonti energetiche, unitamente alla fine delle forniture russe, rende le rinnovabili una strada obbligata.

Politica estera e difesa

Il Piano suggerisce un approccio pragmatico ai limiti posti alle riduzioni di emissioni per evitare di penalizzare eccessivamente l’industria europea rispetto al resto del mondo; come pragmatica deve essere la politica nei confronti della Cina, proteggendo solo i settori della transizione ambientale in cui l’Europa vanta un primato tecnologico (eolico, idrogeno, biofuel), e imponendo di spostare in Europa la produzione per quelli dove la Cina ha acquisito un vantaggio di costo incolmabile (pannelli, batterie), anche attraverso joint venture locali. Poi, accelerare i permessi per gli investimenti in rinnovabili; accentrare gli acquisti di Lng per aumentare il potere negoziale dell’Europa (il maggiore acquirente al mondo); potenziare e integrare le reti di trasmissione; ridurre la tassazione dei prodotti energetici; regolamentare il trading dei derivati e sviluppare strumenti per la stabilizzazione dei prezzi; riformare il meccanismo di determinazione del prezzo dell’elettricità che è ancora agganciato a quello del gas.

I rischi geopolitici rendono l’industria europea vulnerabile perché dipende dalle importazioni di energia, minerali (la Cina ha il predominio nella lavorazione di quelli essenziali alla transizione ambientale), e tecnologia (80 per cento è importata), provenienti da paesi non allineati. L’Europa necessita quindi di una politica estera e di una difesa comune per meglio difendere i propri interessi nel mondo. Lo sviluppo del settore della difesa richiede il coordinamento dei programmi di spesa per gli armamenti, che solo per il 22 per cento va alle aziende europee (gli Usa sono il loro mercato principale), e le aggregazioni in un settore frammentato. Ma la difesa è anche un settore trainante per l’innovazione tecnologica: mentre il governo americano spende 130 miliardi l’anno per ricerca e sviluppo nel settore, l’Europa solo 11.

La crescita delle imprese, le aggregazioni, l’innovazione, e gli investimenti per la digitalizzazione, decarbonizzazione e difesa impongono lo sviluppo di un mercato unico dei capitali che abbia dimensioni e capacità adeguate al compito, mentre oggi è frammentato in tante borse, sistemi di clearing, regolamentazioni, normative e sistemi bancari nazionali; e l’abbondante risparmio delle famiglie europee (1.390 miliardi rispetto ai 840 dei quelle americane) va canalizzato verso il capitale di rischio. I capitali privati sono necessari, ma non sono però sufficienti a finanziare investimenti da 800 miliardi: una cifra imponente, ma significherebbe riportare il rapporto tra investimenti e Pil ai livelli degli anni Sessanta e Settanta. Il bilancio comunitario vale appena 1 per cento del Pil e in gran parte allocato alla politica agricola e alla coesione. Diventa quindi indispensabile ricorrere al debito comune europeo per raggiungere la massa critica degli investimenti, e creare un mercato liquido di un titolo privo di rischio in euro per abbattere il costo del capitale.

Governance

Infine, la riforma della governance europea, che deve essere rafforzata superando il diritto di interdizione dell’unanimità prevista per certe materie, la semplificazione e accelerazione del processo decisionale e normativo, la chiara definizione delle priorità, l’accentramento e coordinamento delle politiche industriali e commerciali, assicurandone la coerenza con gli obiettivi; l’uso efficiente delle risorse per evitare di disperderle.

Tre aspetti accomunano le politiche e misure previste dal Piano: lo spostamento del potere decisionale dagli Stati membri alla Commissione; l’abbattimento delle tante barriere che ancora esistono all’interno dell’Europa e che impediscono la creazione di un mercato unico; e il diverso ruolo dello stato che definisce le priorità e gli obiettivi della politica industriale e commerciale, fornisce i capitali, ma lascia al mercato e alle imprese le singole decisioni di investimento.

Il crescente nazionalismo e dirigismo delle forze politiche europee spingono però nella direzione opposta: si vuole depotenziare la Commissione a favore dei singoli governi, si ergono barriere per proteggere il controllo delle imprese nazionali, si promuovono i campioni nazionali, e il dirigismo prevale sulle logiche di mercato. In questo modo l’Europa perde competitività, riducendo il benessere dei suoi cittadini, che aumenta il malessere sociale, che a sua volta alimenta nazionalismi e dirigismi. Esattamente il circolo vizioso che il Piano Draghi vuole interrompere. O, come scrive Draghi «l’Europa avrà perso la sua stessa ragione di esistere».
 

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