- Il presidente uscente è favorito nei sondaggi, forse più a causa delle divisioni tra gli avversari di destra e sinistra che grazie ai propri meriti.
- Il bilancio economico del presidente è infatti piuttosto mediocre, stando alle analisi dei più prestigiosi centri studi d’Oltralpe. I suoi obiettivi erano: diminuire la disoccupazione e ridurre la spesa pubblica.
- Il primo obiettivo è senz’altro stato raggiunto, grazie principalmente alla precarizzazione del mondo del lavoro. Il secondo è invece sicuramente fallito, non solo a causa della pandemia da Covid-19.
La Francia va oggi al voto dopo cinque anni di presidenza Macron. Cinque anni segnati dalle riforme del mercato del lavoro, le proteste dei “Gilet Jaunes”, la crisi del Covid e in ultimo la guerra in Ucraina.
Il presidente uscente è favorito nei sondaggi, forse più a causa delle divisioni tra gli avversari di destra e sinistra che grazie ai propri meriti. Il bilancio economico del presidente è infatti piuttosto mediocre, stando alle analisi dei più prestigiosi centri studi d’Oltralpe.
Nel 2017, due erano le principali promesse economiche di Macron. Da un lato, diminuire la disoccupazione. Dall’altro, ridurre la spesa pubblica.
Il primo obiettivo è senz’altro stato raggiunto, grazie principalmente alla precarizzazione del mondo del lavoro. Il secondo è invece sicuramente fallito, non solo a causa della pandemia da Covid-19, ma anche per via delle forti riduzioni fiscali a beneficio delle imprese e delle fasce sociali più abbienti.
Lavoro e disoccupazione
Partiamo dalla prima promessa di Macron: aumentare l’occupazione. Al contrario dei suoi predecessori, Macron può rivendicare una diminuzione del tasso di disoccupazione. In piena crisi dei subprime, il mandato di Nicolas Sarkozy aveva visto la disoccupazione salire dall'8,1 per cento al 9,5 per cento della popolazione attiva.
Durante la presidenza Hollande questo tasso è rimasto costante, mentre sotto Macron è sceso dal 9,5 per cento al 7,4 per cento, secondo l’istituto nazionale di statistica francese (INSEE). Il tasso di disoccupazione è così al livello più basso degli ultimi 15 anni.
Ma quali riforme hanno reso possibile questa diminuzione? E con quali conseguenze? La riforma del codice del lavoro è stato il primo grande progetto del quinquennio, nel 2017. Questa riforma rispondeva alla parola d’ordine del capo dello Stato di "liberare il lavoro" e si è subito scontrata con l'opposizione della sinistra, turbata da una "liquidazione" del codice del lavoro.
Tra i punti più controversi c'erano la limitazione delle indennità in caso di licenziamento, che permette agli imprenditori di conoscere in anticipo quanto costerà loro licenziare, la fusione degli organismi di rappresentanza dei lavoratori, e l'aumento del peso degli accordi aziendali rispetto a quelli di settore, che riducono il potere contrattuale dei lavoratori nei confronti delle imprese.
L'altro grande cambiamento è stata la riforma dell'indennità di disoccupazione, una delle più contestate del quinquennio. Presentata nel luglio 2019, ha avuto un percorso caotico: la sua applicazione è stata rinviata più volte a causa del Covid e dell’aspra opposizione dei sindacati.
Il ricalcolo del sussidio di disoccupazione, che penalizza la compensazione delle persone in cerca di lavoro che alternano periodi di lavoro e di inattività, è entrato in vigore solo il 1° ottobre scorso.
I buoni risultati sul tasso di disoccupazione devono dunque essere messi in prospettiva, poiché le cifre non dicono nulla sulla qualità dell’occupazione. In primo luogo, se negli ultimi anni si è registrata una riduzione del numero di disoccupati che non hanno mai lavorato, a questa corrisponde un aumento del numero di persone in cerca di lavoro che alternano lavori saltuari e periodi di disoccupazione.
In secondo luogo, la diminuzione della disoccupazione è dovuta all’ampio ricorso a contratti precari, principalmente a tempo determinato e di lavoro interinale. Secondo i dati INSEE, a fine 2020 si contavano 3,3 milioni di precari, cioè il 12,4 per cento di tutti i posti di lavoro.
Oltre alla precarizzazione dei dipendenti, il quinquennio è stato caratterizzato da una diminuzione della qualità dei posti di lavoro. Il numero medio di ore lavorate è sceso da 32 ore a 30,9 ore a settimana tra il secondo trimestre del 2017 e il terzo trimestre del 2021.
Questo calo è in parte legato alla crisi del Covid-19, ma è anche un segno del cambiamento della struttura del mondo del lavoro. Molti dei posti di lavoro creati sono nel settore dei servizi e a basso valore aggiunto. Si tratta insomma dell’avanzata della “gig economy”, ovvero l’economia dei lavoretti. Il governo si è detto orgoglioso della creazione di quasi un milione di imprese in Francia nel 2021 - «un record semplicemente storico» secondo il ministro dell’economia Bruno Le Maire - ma 641.543 di questi erano microimprenditori, ovvero partite IVA.
Il fisco
Uno dei fari della politica economica della presidenza Macron è stata la riduzione delle imposte a carico delle imprese e dei contribuenti più abbienti. La logica alla base di questi tagli è quella del cosiddetto “trickle down”. L’idea è che il denaro a cui lo Stato rinuncia verrà poi adeguatamente investito dai ricchi e dalle aziende, creando più crescita e posti di lavoro.
E così il governo ha sostituito l’imposta di solidarietà sul patrimonio (ISF) con l'imposta sul patrimonio immobiliare (IFI), ha introdotto una "flat tax" sul capitale, ha abolito la tassa di abitazione, ha ridotto le imposte sulla produzione nonché l'aliquota dell'imposta sulle società dal 33,3% per cento al 25 per cento in cinque anni.
Si tratta di riforme costose, e quindi in netta contrapposizione con la promessa di ridurre la spesa pubblica. Per finanziarle, il governo ha dunque aumentato all’inizio del 2018 la CSG (l’imposta sul reddito che serve a finanziare la spesa pubblica), nonché le tasse su tabacco ed energia. Un cocktail esplosivo che ha fatto emergere il movimento dei Gilet Gialli.
Con l’arrivo della pandemia, Macron ha continuato sulla stessa strada. Tra il 2020 e il 2021, le misure di emergenza sono costate 133,5 miliardi di euro, secondo il Tesoro francese.
A parte le spese sanitarie, si è trattato essenzialmente di aiuti alle imprese concessi senza compensazione: finanziamento della riduzione del tempo di lavoro, fondo di solidarietà ed esenzioni fiscali.
L'esecutivo ha inoltre approfittato delle condizioni favorevoli sul debito, dovute all'intervento della Banca Centrale Europea, per inserire nel suo piano di rilancio un nuovo regalo alle imprese: una riduzione di 20 miliardi di euro delle tasse sulla produzione.
Ma queste riforme hanno avuto gli effetti sperati sul dinamismo dell’economia? L’Istituto di Politiche Pubbliche, un prestigioso organismo accademico indipendente, ha stilato tre rapporti di valutazione, trovando che la riduzione delle tasse sulle imprese e i contribuenti più abbienti non ha avuto alcun effetto sugli investimenti produttivi.
L’unico impatto empiricamente stabilito è stato l’aumento dei dividendi pagati agli azionisti. La stessa valutazione è condivisa da Vincent Vicard, ricercatore del CEPII. In un articolo pubblicato da Le Monde, Vicard parla di «importi sostanziali per risultati chiaramente deludenti».
La spesa pubblica
Risultati deludenti che hanno però contribuito all’aumento della spesa pubblica. Nel 2017, Macron prometteva 60 miliardi di risparmi in cinque anni tramite una riduzione di 120 mila dipendenti pubblici, di portare il deficit di bilancio allo 0,5 per cento e di ridurre la spesa pubblica al 52 per cento del PIL.
Tra il 2017 e il 2022 la quota di spesa pubblica nel PIL è invece passata dal 55,1 per cento al 55,6 per cento. Il debito pubblico nello stesso periodo è passato dal 100 per cento al 113 per cento del Pil. In cinque anni, il debito è aumentato di 700 miliardi di euro, principalmente a causa del Covid.
Anche prima della crisi sanitaria, però, la traiettoria non era quella promessa. Complici le riduzioni fiscali, nel 2019 il deficit era sopra al limite del 3 per cento del Pil e il peso della spesa pubblica sopra il 55% del Pil.
La crisi dei gilet gialli ha ridotto le ambizioni di Emmanuel Macron, in particolare sulla riduzione del numero dei dipendenti pubblici (Stato, sanità, enti locali). Questi ultimi invece di diminuire sono aumentati in cinque anni da 5,52 a 5,7 milioni.
Inoltre, nonostante le proteste dei gilet gialli, Macron ha deciso di non tornare indietro sulle riduzioni fiscali a imprese e abbienti. Al tempo stesso ha però rinunciato ad aumentare altre imposte per compensare le perdite. Risultato: il tradimento di una promessa elettorale, imputabile solo in parte alla crisi sanitaria.
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