Le istituzioni per la governance economica europea, create negli anni Novanta, sono nate male e invecchiate peggio. Il clima politico attuale e gli equilibri politici che usciranno dalle prossime elezioni non consentono di immaginare grandi sconvolgimenti. Occorrerà mettere sul tavolo riforme realistiche che consentano di creare uno spazio per le politiche economiche
Il clima in cui tra una settimana si voterà per il parlamento europeo non è buono, con i cittadini europei stretti tra élite in preda a una conclamata sindrome di Maria Antonietta e partiti nazionalisti che alimentano la narrazione del nemico esterno venendo premiati da una classe media esausta. Il Diario Europeo in questi anni ha seguito le politiche economiche europee sottolineandone progressi e (purtroppo più spesso) insufficienze. È forse utile, in vista della scadenza elettorale, di provare a fare un bilancio e delineare un’agenda realistica per il futuro.
Istituzioni nate male
Le istituzioni che regolano l’economia e le politiche economiche dell’Ue sono figlie di un’epoca, gli anni Novanta, in cui si credeva (a torto) che mercati efficienti potessero occuparsi di garantire crescita e convergenza, e che per questo fosse necessario mettere vincoli e paletti all’azione della mano pubblica, come ad esempio il Patto di Stabilità. L’Unione Europea ha a lungo rifiutato di trarre lezioni dalla crisi del 2008, che mostrava inequivocabilmente che i mercati tanto efficienti non sono. Il simbolo di quell’epoca di chiusura è proprio il Patto di Stabilità, che non solo non fu sospeso durante la crisi; ma fu addirittura riformato nel 2012 in senso ancora più restrittivo. Perché le cose cambiassero è stato quindi innanzitutto necessario digerire il fallimento, prevedibile per chi non avesse i paraocchi, delle politiche di austerità.
Il Covid ha infine scrollato gli Stati membri e le istituzioni europee dal loro torpore, spingendoli ad agire presto e bene per far fronte alla pandemia. Lo hanno fatto in particolare attraverso quella che rimarrà la grande innovazione istituzionale degli ultimi anni, cioè la creazione del programma Next Generation Eu. Anche se si è lontani da un “momento hamiltoniano”, il salto verso un’Europa federale, Ngeu non deve essere sottovalutato. Nonostante i ritardi in molti paesi, tra cui il nostro, esso può essere preso a modello per futuri piani di investimento europeo (per esempio per la transizione ecologica) finanziati con debito comune.
Dopo anni turbolenti, di “policrisi” con cause diverse e affrontate con alterne fortune, i numerosi bisogni di finanziamento degli Stati membri dell'Unione Europea, sia per la stabilizzazione macroeconomica sia per garantire il successo della transizione ecologica, pongono la questione del coordinamento tra politica monetaria e politica di bilancio e, per quest’ultima, tra i livelli nazionale ed europeo. Tuttavia, la dinamica avviata con Next Generation Eu negli ultimi mesi si è affievolita.
La riforma del Patto di stabilità e crescita non ha mantenuto le promesse che le prime proposte della Commissione Europea avevano lasciato intravedere. Considerati gli attuali livelli di debito e disavanzo di molti paesi, come Belgio, Spagna, Francia o Italia, l'intricata ragnatela di vincoli e di clausole di salvaguardia obbligherà presto a politiche di restrizione di bilancio. Gli effetti sull'economia europea saranno negativi, come oggi prevede anche la Bce.
L’agenda per i prossimi anni
La riforma del Patto di stabilità era considerata da alcuni come un prerequisito per una riforma di grande portata del bilancio europeo, incentrata sulla creazione di una capacità di bilancio centrale. Le clausole di salvaguardia introdotte nella nuova versione del Patto di stabilità dicono molto sulla mancanza di appetito degli Stati membri per una tale capacità di bilancio. Quanto al “NGEU permanente” di cui alcuni parlano, è difficile immaginarlo senza un cambiamento di trattato, cosa che richiede un’unanimità oggi difficile da immaginare ed esclude un eventuale struttura a due velocità (la cooperazione rafforzata). Oggi, probabilmente, l’ambizione massima sarebbe quella di creare un’agenzia europea per l’investimento pubblico, finanziata dal bilancio europeo. L’agenzia europea potrebbe anche coordinare gli investimenti nazionali, aumentando le sinergie e riducendo i rischi di duplicazione. È difficile tuttavia immaginare, nel clima attuale, che una tale agenzia verrebbe dotata delle risorse necessarie a coprire i bisogni annuali di investimento, che solo per la transizione ecologica sono stimati intorno al 2,5 per cento del Pil europeo.
Volare basso
Insomma, il clima non sembra favorevole (e lo sarà ancora meno dopo le elezioni di domenica) a grandi progetti comuni. Dati i bisogni di finanziamento per la transizione ecologica, a cui si aggiungono ora i bisogni di finanziamento per la difesa, data la necessità di ripensare beni pubblici globali come l’istruzione e la salute, dati i livelli di debito, la coperta rappresentata dal nuovo Patto di stabilità e crescita è decisamente corta. Sembra quindi inevitabile riaprire le discussioni sulla riforma del Patto di stabilità e crescita. Il cantiere che ha portato alla riforma dei mesi scorsi è stato aperto nel 2020, prima della pandemia e dell'aumento dei disavanzi e dei debiti pubblici a cui essa ha contribuito. Non è possibile ragionare come se le finanze pubbliche fossero ai livelli della fine del 2019, e voler ritornare gradualmente ai livelli di disavanzo e debito pubblico immaginati nel 1991. Le discussioni sull'architettura delle regole di bilancio nazionali in Europa dovrebbero quindi riprendere per consentire investimenti pubblici (i lettori del Diario Europeo sanno che chi scrive milita da tempo per una “regola d’oro” che escluda l’investimento dal computo del disavanzo) e politiche realmente anticicliche: l'austerità di bilancio che si prospetta ha purtroppo tutte le probabilità di intervenire in una situazione di bassa crescita.
Riflettere sulla Bce
Infine, tra i grandi cantieri della prossima legislatura non dovrebbe mancare una riflessione sulla Bce. Certo, il pragmatismo dei suoi dirigenti ha permesso di sostenere l’economia in questi anni turbolenti, estendendo considerevolmente la gamma dei suoi strumenti di politica monetaria, a volte reinterpretando il suo mandato e adottando (nel 2021) un obiettivo di inflazione simmetrico. In qualche modo, insomma, l’istituto di Francoforte ha fatto il suo.
Ma sarebbe comunque auspicabile che, a complemento della discussione sulle politiche di bilancio si ridiscutessero gli obiettivi assegnati alla Bce per consentirle di allineare il suo mandato alla pratica che, necessariamente, vista l’instabilità attuale, resterà interventista anche in futuro. Uno statuto che, sul modello della Fed americana, assegnasse alla banca centrale il compito di perseguire la crescita (coordinandosi con le politiche di bilancio) in aggiunta all’inflazione, corrisponderebbe meglio a quello che ha fatto la BCE negli ultimi anni, ed eviterebbe le giravolte comunicative del passato.
Insomma, il clima attuale e gli equilibri politici che usciranno dalle prossime elezioni non consentono di immaginare grandi sconvolgimenti. Ma non possiamo abbassare le braccia. Dovremo cercare di mettere sul tavolo riforme realistiche che consentano di creare uno spazio per le politiche economiche e di ridurre lo scollamento tra la realtà e istituzioni create negli anni Novanta e invecchiate male.
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