«Senza coesione non c’è transizione ecologica»: ne è convinto Andrés Rodríguez-Pose, professore alla London School of Economics and Political Science, dove è geografo economico. Proprio lui ha ricevuto dalla Commissione europea l'incarico di pensare la politica di coesione del futuro.

Ha guidato infatti un gruppo di esperti di alto livello così da produrre una riflessione su come dev’essere questa politica oltre il 2027, pensando «alle sfide multiple» – per dirla con Bruxelles – e a come questa politica «può supportare una transizione verde giusta e favorire la crescita delle regioni». 

Lei ha diretto il gruppo per la riforma della politica di coesione post 2027. Quali conclusioni trae?

La politica di coesione del futuro dev’essere capace di rispondere a quattro sfide determinanti. La prima è la mancanza di competitività, che riguarda tutta l’Ue ma che è particolarmente evidente in Italia oltre che in Francia e in Grecia. In paesi come questi, molte regioni hanno un livello di reddito pro capite che è inferiore in termini reali a quello del 2000. La seconda sfida riguarda la polarizzazione: il dinamismo è concentrato nelle regioni già più dinamiche, cioè in particolare nelle capitali e nelle grandi città. Il terzo punto da affrontare è la mancanza di opportunità, soprattutto per i giovani, per le donne e per le fasce vulnerabili. Infine bisogna tener conto della necessità di riadattarsi in un mondo in cui anche le catene globali si stanno modificando.

In questo contesto, va usato in Ue tutto il potenziale di cui si è dotati, per creare ricchezza: c’è un rischio economico molto forte. Un altro rischio da non sottostimare è la crescita del malcontento verso il progetto europeo, con l’ascesa di partiti estremi populisti. Infine, se non c’è coesione, manca il collante fondamentale che ci tiene tutti uniti dentro il progetto europeo: questo terzo rischio mina le basi dell’Europa stessa.

In che modo va riformata la politica europea di coesione, per far fronte a queste sfide, e ai rischi?

Dopo aver riflettuto proprio su questo con il gruppo per la riforma, direi che la proposta fondamentale consiste nel cambiare l’intero sistema. Attualmente la politica europea è basata sull’investire nelle regioni meno sviluppate, in quelle povere. Bisogna ovviamente continuare a iniettare risorse nelle aree meno sviluppate, ma è necessario fare di più, guardare anche oltre: penso alle aree che hanno potenziale ma si trovano in una “trappola di sviluppo”, e a quelle con concentrazioni forti di persone senza opportunità.

In uno degli studi di cui lei è coautore – The Geography of EU Discontent and the Regional Development Trap – si mette in relazione questa “trappola di sviluppo” con l’affermazione di partiti euroscettici. Dunque è importante capire di che trappola parliamo.

La “trappola di sviluppo” è una maniera di misurare le regioni che sono diventate meno dinamiche, che non crescono. Prendiamo in considerazione tre variabili economiche – il pil pro capite, l’occupazione e la produttività – e poi svolgiamo una comparazione multipla: di ogni regione rispetto al proprio passato, rispetto alle altre regioni dello stesso paese, e infine rispetto a quelle di tutta l’Ue. Possiamo così tener conto di tre dimensioni. Prima valutiamo il rischio di essere in una trappola di sviluppo – cioè di non essere dinamici – e poi anche l’intensità e la durata della trappola. Otteniamo così mappe strepitose.

Anche regioni e aree ricche possono trovarsi in “trappola”?

Assolutamente sì. La Lombardia è molto ricca ma da trent’anni non cresce e l’unica crescita è concentrata in provincia di Milano. In aree come quelle di Pavia, Cremona, Mantova o Bergamo il malcontento è cresciuto tantissimo: le coppie sanno di esser ricche meno dei propri genitori, e che i propri figli lo saranno ancor meno.

La “trappola di sviluppo” non è una misura statica – non ci dice chi è ricco e chi è povero – bensì dinamica: ci aiuta a valutare il dinamismo nel corso del tempo. Scopriamo così che la mancanza di dinamismo si concentra soprattutto in regioni con livelli di sviluppo intermedio e alto. Viceversa, vi sono aree dell’Ue che pur essendo più povere sono cresciute e hanno mostrato dinamismo; penso al quadrante centrorientale.

Non è meglio concentrarsi sulla riduzione delle diseguaglianze, piuttosto che avere la crescita in sé come stella polare?

Non si può crescere se c’è una società molto polarizzata; altresì, non si può ridurre la polarizzazione se non si cresce. È necessario mobilitare tutto il potenziale, per evitare di cadere in una mancanza di dinamismo come è successo in Italia.

Finora le politiche e i fondi Ue di coesione non ci hanno tirati fuori dalla “trappola”? Fino a che punto hanno generato un effetto?

La politica europea di coesione ha funzionato molto per la crescita nei paesi dell’Est, ha prodotto buoni risultati in Spagna e Portogallo, e ha funzionato meno in aree del Mezzogiorno: le province di Napoli, Salerno, Trapani, Messina, Reggio Calabria, sono in “trappola di sviluppo”… In tutta Italia si assiste a una mancanza di dinamismo molto pronunciata.

I fondi hanno funzionato un po’ ovunque, ma hanno avuto un impatto molto limitato nelle aree con qualità istituzionale bassa. Le ricerche sull’impatto dei fondi strutturali mostrano che sopra un certo livello di investimento il suo impatto si riduce – o viene sprecato – se non c’è una adeguata qualità delle istituzioni; a quel punto si ottiene un ritorno tre volte più forte migliorando la qualità istituzionale, piuttosto che aumentando i fondi.

Sempre più spesso l’Ue attinge ai fondi di coesione – previsti in origine per ridurre i divari – e li usa come tesoretto in casi di emergenza o di altro tipo, che si tratti del Covid o di dirottarli verso le imprese. Invece di sottrarre alla coesione in nome dell’urgenza, non sarebbe più lungimirante “coesionizzare” tutte le politiche Ue, orientandole verso la riduzione delle diseguaglianze?

Questo punto è fondamentale. I fondi di coesione rappresentano un terzo del bilancio Ue, e ogni volta che c’è stata un’emergenza sono stati usati in modo flessibile, ma se li si trasforma in un “fondo per l’emergenza” li si rende reattivi invece che proattivi. In una metafora: ci si trasforma in pompieri invece di evitare gli incendi. I fondi di coesione sono fondi di cambiamento strutturale a lungo termine: servono anzitutto a evitare, le emergenze, e inoltre a renderci più preparati a reagire a esse. A settembre in Grecia è caduta in 24 ore la quantità di pioggia che a Madrid cade in due anni, ci sono state inondazioni, ma i morti sono stati dieci; in Libia con metà della pioggia se ne sono contati 2mila.

A proposito di cambiamento climatico, la transizione verde rischia di esasperare i divari? Quale ruolo assume in questo contesto la politica di coesione?

La politica di coesione può aiutare a preparare la trasformazione, a creare le condizioni perché si svolga una transizione ecologica molto più giusta, non solo in termini di impatto diretto, ma pure indiretto: può aiutare regioni che attualmente dipendono molto da alcuni settori a diventare più resilienti a varie crisi, compresa quella climatica. Ci sono aree semidesertiche della Spagna che rischiano di diventare desertiche, ma come si spiega a chi vive in Almería, dove tutto è orientato a turismo e agricoltura intensiva, che bisogna mettere una pala eolica vicino a un b&b?

C’è un problema di concentramento dei costi della transizione, dato che le regioni più vulnerabili a questo adattamento sono già più povere e meno dinamiche: le vulnerabilità si intrecciano. In questo contesto si produce un malcontento che fa da carburante alle formazioni euroscettiche, come spieghiamo nello studio The green transition and its potential territorial discontents. Perciò è fondamentale mettere in sinergia la transizione green con la coesione: senza coesione aumenta il malcontento, che favorisce elettoralmente i negazionisti del clima. In sintesi: senza coesione non c’è transizione.

Questo contenuto giornalistico fa parte del progetto “#CoesioneItalia. L’Europa vicina”, che è finanziato dall’Unione europea. I punti di vista e le opinioni espresse sono tuttavia esclusivamente quelli dell’autore e non riflettono necessariamente quelli dell’Ue. Né l’Ue né l’autorità che eroga il finanziamento possono essere ritenute responsabili per tali opinioni.

© Riproduzione riservata