Lo stile del nuovo capo inglese del Labour è diametralmente opposto da quello del suo predecessore: toni pacati e non paternalisti, sempre ultra-preparato nel presentare dati e argomenti a sostegno dei suoi interventi. Non alza mai la voce, elegantissimo e non si spettina nemmeno quando va in bicicletta. Decisamente l’opposto
- Eletto il 4 aprile alla guida del Labour dopo una lunga e noiosa campagna elettorale mutilata dall’arrivo del Covid-19, Starmer ha ereditato un partito al suo minimo storico in termini elettorali ma con un numero di iscritti imponente invidiato da chiunque in Europa.
- Da un lato sottolinea l’appetito per una normalità, presunta o non, non importa, che l’elettorato laburista covava da tempo; dall’altro ci deve mettere in allerta.
- Un contegno che funziona molto bene anche nei confronti in parlamento con Boris Johnson il cui stile clownesco e fintamente ironico risulta ancor più dilettantesco e urticante.
A chiusura di questo anno da dimenticare, se c’è una persona in Regno Unito che più di tutti vorrebbe guardare avanti e archiviare la Brexit ora che è definitivamente incorniciata nell’accordo con l’Unione europea è certamente lui, il leader del partito laburista Keir Starmer. Eletto il 4 aprile alla guida del Labour dopo una lunga e noiosa campagna elettorale mutilata dall’arrivo del Covid-19, Starmer ha ereditato un partito al suo minimo storico in termini elettorali ma con un numero di iscritti imponente invidiato da chiunque in Europa; un partito ferocemente diviso al suo interno al cui sonnambulismo dovuto alla Brexit mai affrontata, si sono aggiunte le denunce, e la strumentalizzazione che ne è seguita, di antisemitismo. Insomma, non esattamente una posizione facile.
I primi otto mesi
I primi otto mesi di Starmer, conclusisi idealmente mercoledì con il voto a sostegno dell’accordo con l’Ue non sono andati tutto sommato male. Accolto con grande favore dall’opinione pubblica lo scorso aprile, quando a settembre è salito sul palco virtuale del congresso laburista Starmer già aveva notevolmente migliorato la posizione del partito in termini di sondaggi e di fiducia nella leadership, riaccendendo la concreta speranza di riuscire a recuperare quella base tradizionale laburista nel nord – il red wall – che sembrava irrimediabilmente persa nella débâcle corbynista alle elezioni dell’anno scorso.
Un po’ giocare facile questo, vero, visto che Corbyn era riuscito a toccare il livello più basso di fiducia mai registrato da quando Ipsos Mori, nel 1977, ha iniziato a produrre questo tipo di statistiche. Ma la velocità con cui Starmer nonostante il congelamento del dibattito politico dovuto alla pandemia è riuscito a colmare il gap non deve essere sottovalutata.
Da un lato sottolinea l’appetito per una normalità, presunta o non, non importa, che l’elettorato laburista covava da tempo; dall’altro ci deve mettere in allerta, nel caso ce ne fosse ancora bisogno in questo anno che ha visto evaporare i vari populismi virtuali à la Salvini, nel non dare troppo affidamento alle nostre “bolle” mediatiche. La politica democratica è scontro, opinioni, passioni e percezioni, ma soprattutto si sviluppa in istituzioni, si alimenta di rappresentatività, ha bisogno di riflessione e di prassi democratiche.
Il mondo con cui Starmer si confronta oggi è molto diverso da quello che ha polverizzato il progetto (un po’ naïve) corbynista; e lo stesso populismo di Johnson e del più becero brexitismo di cui da un certo punto di vista il corbynismo ne ha rappresentato l’altra faccia, opposta ma uguale in termini di concezione della democrazia come appello diretto, sono ormai una fase chiusa.
Certo le conseguenze si vedranno nei prossimi anni; ma in termini politici quella è un’altra epoca. Starmer ha puntato tutto su questa ipotesi. Se sia adatto a traghettare la sinistra inglese verso questa presunta nuova era e riuscire a diventare l’unico altro leader laburista ad essere eletto anche primo ministro da cinquant’anni a questa parte, forse lo si può capire andando a ripercorrere i suoi primi otto mesi. L’unico altro che è riuscito nell’impresa è stato Tony Blair. Quanto ciò sia di buon auspicio è un altro discorso.
Dimenticare Corbyn
Non c’è dubbio che il suo primo obiettivo è stato quello di far “dimenticare Corbyn”. Già dal breve primo discorso da leader Starmer si è presentato come l’anti-Corbyn in termini di stile e linguaggio: toni pacati e non paternalisti, sempre ultra-preparato nel presentare dati e argomenti a sostegno dei suoi interventi ai Comuni; una sorta di tecnocrate, ma in positivo che affronta i banchi dell’opposizione con lo stesso approccio di quando andava in tribunale a difendere il sindacato contro Murdoch. Non alza mai la voce, elegantissimo e non si spettina nemmeno quando va in bicicletta. Decisamente l’opposto.
L’obiettivo è stato completamente centrato in termini di percezione pubblica. Un contegno che funziona molto bene anche nei confronti in parlamento con Boris Johnson il cui stile clownesco e fintamente ironico risulta ancor più dilettantesco e urticante.
Ma “dimenticare Corbyn” significa soprattutto recuperare la fiducia dell’elettorato e dell’opinione pubblica nei confronti del Labour, significa riportare il partito ad essere considerato anche di “governo” e non solo di “lotta”. Una contraddizione endemica del Labour fin dai tempi di Ramsay MacDonald e che Clement Attllee conosceva bene; una tensione che Tony Benn e con lui il suo giovane collaboratore Corbyn non sono riusciti a risolvere. Che poi, va ricordato, la lotta che le varie frange più o meno vicine al progetto corbynista concepivano è stata soprattutto una protesta da tastiera e da iPad. Ma tant’è.
Anche in questo caso Starmer sembra aver centrato l’obiettivo in termini di sondaggi e di retorica e narrazione pubblica – il suo discorso al congresso di settembre, ad esempio – ma soprattutto per quanto riguarda il riallineamento interno al partito. Dopo l’elezione di tre candidati “corbyn-scettici” alle suppletive di aprile, Starmer ha rinnovato il Nec, l’organo di governo del partito, a suo favore.
Normale prassi per ogni cambio di leadership, ovvio. In aggiunta, però, si è buttato in una lotta senza quartiere contro qualsiasi cenno di antisemitismo facendo pure vittime eccellenti: Rebecca Long-Baily, stretta collaboratrice di Corbyn, e l’ex leader stesso sono stati destituita dal governo ombra la prima, e sospeso dal partito per un breve momento il secondo.
Certamente questo è stato il punto più basso della guerra civile interna e avrà strascichi di lungo periodo; e certamente la questione dell’antisemitismo nel partito e in generale nella cultura della sinistra inglese non è stata risolta qui, come purtroppo mostra l’ingenuità al limite della complicità con cui Corbyn ha replicato.
Ma a rileggere a distanza i toni apocalittici usati in quei giorni non si può che confermare l’ipotesi che quell’epoca politica – non l’antisemitismo ahimè – è chiusa e archiviata. Come si riorganizzerà la sinistra radicale è ancora troppo presto per dirlo; Corbyn ha presentato il suo progetto personale e forse i primi segnali si sono visti nel nuovo fronte di deputati laburisti che contraddicendo la linea del partito hanno votato contro l’accordo con l’Ue. Fra questi, in un incredibile cortocircuito anche Corbyn e Diane Abbott hanno votato in linea coi liberdemocratici – una sorta di bestemmia a ripensarla con un paio di occhiali diversi – rischiando di essere considerati quasi europeisti.
Diversamente socialista
Diversa l’analisi in termini di proposte politiche. Qui Sir Keir non sembra voler “dimenticare”. Contrariamente a quanto vanno urlavano i suoi più accaniti oppositori che con Starmer il partito è tornato alle posizioni del blairismo più smagliante – una lettura accolta paradossalmente con favore da alcuni in Italia, ma questo è un altro discorso – per il momento invece il leader laburista non ha ribaltato il programma, mantenendo sostanzialmente i principi neo-keynesiani e anti-austerity del manifesto 2019.
Anzi, da un certo punto di vista ne ha rafforzato anche l’approccio con la proposta di una tassa sulla ricchezza e ha sistemato il piano economico ancorando le proposte a un dato di realtà, non solo limitandosi a congelare la "lista della spesa” per le nuove nazionalizzazioni ma fornendo una dettagliata piattaforma economico-finanziaria. Starmer è stato eletto in parlamento per la prima volta nel 2015 e di fatto tutta la sua carriera parlamentare si è svolta nel Labour di Corbyn. Considerarlo quindi un revisionista è semplicemente miope.
Come ha detto lui stesso in tempi non sospetti: «Non credo che la gente mi consideri un corbynista, ma sono di certo un socialista». È curioso, infatti, come la battaglia con l’opposizione interna si stia tutta svolgendo nel quadro della percezione e dei proclami sui social media e non sul progetto di società che si intende presentare agli elettori. Uno stile quello degli ex corbynisti, insomma, molto simile al populismo conservatore da club del cricket e che ci dice di quanto debba ancora sgobbare Starmer per tenere insieme il partito.
«Un poliziotto in un completo costoso»
Se dunque non ha avuto problemi a sbarazzarsi velocemente dell’opposizione alla prima occasione che gli si è presentata – legittimamente sia chiaro – non può certo avere lo stesso tipo di atteggiamento con militanti ed elettori, soprattutto giovani, che hanno guardato con speranza alla svolta progressista che il progetto Corbyn ha rappresentato.
Nel caso di questa sfida Starmer ha qualche problema. La strategia che ha finora perseguito per costruire una coalizione politica e culturale capace di tenere insieme proposte progressiste "radicali” – redistribuzione della ricchezza, protezione dei diritti e dell’ambiente – con il tradizionale prisma laburista della tutela dei lavoratori, così come il suo stile di leadership sono stati “virtualmente” vincenti e sicuramente avranno effetto anche nel lungo periodo. Ha persino smesso di accusare la stampa per le sconfitte elettorali, che era il tratto veramente patetico della leadership precedente.
Ma per trasformare questo in una vera alternativa di governo, oltre alla presenza proattiva in parlamento, che è stata finora la piattaforma privilegiata, e alla riorganizzazione nel partito, Starmer avrà bisogno anche di “movimento”, della partecipazione e della presenza nelle comunità e nella società civile. Quello che una volta si chiamava il popolo della sinistra insomma. Starmer avrà bisogno di sinistra. In tutte le sue dimensioni. Non solo di opposizione in parlamento.
Da questa prospettiva la performance, come si è detto, lascia ancora a desiderare. Se il suo record personale e professionale non può certo essere messo in discussione, tuttavia la cautela mostrata nei confronti del movimento Black Lives Matter, per fare un solo esempio, che ha spinto Blm-England a descriverlo come «un poliziotto in un completo costoso» deve indurre a qualche riflessione. Si potrà ritenere che la strana situazione di fare politica al tempo del Covid in cui si è ritrovato sia una possibile spiegazione a questo bizzarro distanziamento sociale; va anche aggiunto che la tradizione laburista della partecipazione movimentista non è storicamente delle più feconde. Ma ha ragione Paul Mason sul New Statesmen quando ci ricorda che senza la capacità di intercettare e dare voce alle variazioni nella società il Labour di Starmer non andrà oltre allo spettacolo, seppur piacevole, di “grigliare” il primo ministro in parlamento ogni mercoledì, restando tuttavia sempre dal lato dell’opposizione. Senza dubbio lo sta facendo meglio del suo predecessore; ma la situazione non cambia.
In questo fascicolo va aggiunta anche la questione Brexit. Benché risulti chiaro da un punto di vista strategico e anche di principio il motivo per cui Starmer ha imposto al partito di votare a favore dell’accordo – il non votarlo avrebbe significato essere ipoteticamente pronti a portare il paese fuori dell’Ue senza accordo, evidenziando così l’ipocrisia di una posizione di principio possibile soltanto perché i numeri della maggioranza conservatrice la permettono – tuttavia, storicamente rimarrà agli archivi il fatto che anche in questa occasione come per tutte le precedenti riguardanti l’Europa il Labour ha votato mettendosi dal lato sbagliato della storia. La Brexit e la questione europea non si chiudono qui, né per Starmer e il suo partito, tantomeno per il Regno Unito.
Un modello per la sinistra europea?
Per un paese esterofilo come l’Italia che guarda sempre oltreconfine alla ricerca di modelli a cui ispirarsi ci si potrebbe chiedere se Starmer sarà quello nuovo. L’ultimo europeo in ordine di tempo è stato Pedro Sánchez, ma ora la scena è occupata da Biden. Varrebbe forse la pena domandarsi perché la sinistra italiana eccelle in questa pratica collettiva, ma non è questa la sede.
Guardando ai suoi primi otto mesi sembra difficile però immaginare Starmer in quel ruolo: il paese si è ritirato su se stesso, già prima dell’ufficializzazione della Brexit e il Labour a partire dalla recessione del 2008 non è stato molto diverso. Starmer non ha scelta: deve rincorrere un governo raffazzonato che però con la gestione della pandemia ha rubato al Labour l’immagine del partito difensore del welfare, non importa se si tratta solo di percezione. Non ha lo stile del tribuno e sembra piuttosto il classico esempio di understatement inglese. Insomma, non va per caciara italiana. Magari varrebbe la pena guardare alle sue proposte politiche, ma questa è una pratica che la sinistra italiana ha smesso di fare da tempo.
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