- Nel contesto scintillante del lago di Bled dove Tito passava le vacanze, sono sfilati Janez Jansa, Viktor Orbán, Andrej Babiš, un coacervo di premier con un solido curriculum di violazioni dello stato di diritto.
- Tra un discorso sulla famiglia e uno sui migranti, i leader hanno spinto sull’opportunità per l’Unione di allargarsi ancora. Mentre l’Ue si fa tentare dall’espansione, Bruxelles non dirime il nodo dello stato di diritto.
- L’inadempienza della Commissione è tale da provocare uno scontro con l’Europarlamento, che sta per portarla davanti alla Corte Ue e conduce una lotta solitaria per la rule of law.
Non lontano dall’Italia, nel contesto scintillante del lago di Bled dove il maresciallo Tito passava le vacanze, sono sfilati ieri il premier sloveno Janez Jansa, il suo sodale e ispiratore Viktor Orbán, il primo ministro ceco Andrej Babiš, e insomma un coacervo di capi di governo con un solido curriculum di violazioni dello stato di diritto. Al Bled Strategic Forum sono intervenuti vari leader, compresi i presidenti del Consiglio europeo e dell’Europarlamento, membri della Commissione europea, e persino il segretario di Stato della Santa sede, Pietro Parolin. Non ha mancato di farsi vedere in Slovenia pure la leader di Fratelli d’Italia, e presidente dei conservatori europei, Giorgia Meloni. Tra un discorso sulla famiglia tradizionale e un altro sui migranti, i leader dell’Europa centrale e sudorientale hanno pure spinto su un tema: l’opportunità per l’Unione europea di allargarsi ancora. «L’Ue ha bisogno della Serbia più di quanto la Serbia abbia bisogno dell’Ue», ha detto Orbán. I suoi rapporti con il premier serbo Aleksandar Vučić sono più stretti che mai, e Vučić ricambia, definendo l’illiberale ungherese «il principale fattore di stabilizzazione dell’area». Belgrado ha con Budapest molto in comune, dai rapporti con Mosca e Pechino allo stato di diritto che vacilla.
Un nodo irrisolto
«È ora di iniettare nuova energia nel processo di allargamento verso i Balcani occidentali», ha detto ieri in Slovenia lo stesso presidente del parlamento europeo, David Sassoli. Mentre l’Ue si fa tentare dall’espansione, intanto Bruxelles non riesce né vuole, da più di un decennio, dirimere il nodo dello stato di diritto. A parole, di recente la Commissione europea ha tuonato contro la legge anti Lgbt ungherese e le scelte omofobe polacche. Nei fatti, l’unica istituzione europea che conduce una lotta radicale e solitaria per far rispettare la rule of law, lo stato di diritto, è pure l’unica istituzione eletta direttamente dagli europei: l’Europarlamento. La Commissione Ue non accenna a utilizzare il nuovo meccanismo che vincola i fondi europei al rispetto dello stato di diritto, perciò gli eletti europei questa estate con una risoluzione hanno avvisato Bruxelles: se continua così, la porteranno davanti alla Corte di giustizia europea. Si chiama «ricorso in carenza» ed è un gesto di inedito conflitto istituzionale: l’Europarlamento fa causa alla Commissione perché non fa il suo dovere. Ma anche di fronte a questa pressione, l’esecutivo von der Leyen insiste: prosegue nella strada del non far niente.
La lettera e lo scandalo
«La richiesta di agire da parte del parlamento Ue non è abbastanza chiara e precisa», scrive il 23 agosto Ursula von der Leyen a Sassoli. E fa infuriare gli europarlamentari: «Ne ho vista di spazzatura legalistica, ma questa è la più scandalosa provocazione di sempre», per la liberale Sophie in’t Veld. «Un insulto non a noi ma ai cittadini!». «La lettera di Bruxelles non fa che aumentare lo scontro con l’Europarlamento», dice il verde Daniel Freund. L’aula pretende che l’Ue faccia valere il meccanismo per avere il quale gli eletti si sono battuti lo scorso anno, e questa settimana i capigruppo hanno confermato che vanno avanti: portano la questione del ricorso nel comitato affari legali. L’unico modo che Bruxelles ha per fermare lo scontro in Corte è utilizzare finalmente il meccanismo; vengono fatti circolare rumors che potrebbe farlo entro l’autunno.
Le ragioni di von der Leyen
Polonia e Ungheria fanno pesare a von der Leyen la sua elezione: i due partiti Pis e Fidesz l’hanno sostenuta. Ma non è solo questo a rendere indulgente la Commissione, quanto l’atteggiamento supino verso i governi. Se mai la Commissione qualcosa ha fatto contro Orbán, è per Realpolitik: da quando Fidesz ha abbandonato i popolari, la copertura di Berlino è più debole. L’unico vero atto di fermezza compiuto finora da von der Leyen è tenere bloccati i Recovery plan polacco e ungherese. Bruxelles non attiva il meccanismo che condiziona i fondi, ma per ora non li sgancia proprio, «e ciò ha un vantaggio», riconosce Freund: «Trattenere il denaro ha un impatto immediato. Finché blocchi i soldi fai pressione». Ma sul lungo periodo non basta: «Solo attivando il meccanismo si possono congelare linee di bilancio che valgono per anni».
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