- «Perché dovremmo andare dietro a Greta?», dice Paolo De Castro davanti a un tavolino del bar dell’Europarlamento. Lui è uno degli architetti della riforma della politica agricola comune (Pac). La Pac vale un terzo del bilancio e non è questione di settore, ma linea di frattura.
- Per i Fridays, Greenpeace, il mondo ambientalista, più che una riforma, la nuova Pac è una controriforma. Non aiuta il clima e continua a concentrare risorse in mano a pochi. Fino all’ultimo, i ragazzi del clima sono scesi in piazza al grido di #VoteThisCapDown
- Ma l'Ue non li ascolta. A parte qualche eccezione, i Verdi e la sinistra, il resto dell'asse politico conferma la linea. Ora la pressione si sposta sui governi, ai quali resta un margine di manovra.
«E noi perché dovremmo andare dietro a Greta Thunberg?», dice Paolo De Castro a fine giornata, davanti a un tavolino del bar dell’Europarlamento. L’eurodeputato socialdemocratico non è solo un gran sostenitore, ma è uno degli architetti della riforma della Politica agricola comune (Pac) approvata oggi, 23 novembre, all’Europarlamento.
Per Greta Thunberg, per i Fridays for Future, per Greenpeace e per il mondo ambientalista, più che una riforma, questa nuova Pac è una controriforma. «Disastrosa per il clima e l’ambiente, neppure minimamente in linea con gli accordi di Parigi», parola di Greta, che dice pure: «Ma l’Unione europea a Glasgow a Cop26 non era andata a dire che voleva essere leader del cambiamento?». Fino all’ultimo, a Bruxelles, a Strasburgo, a Berlino, i ragazzi del clima sono scesi in piazza, compresa quella social, al grido di “non votate questa Pac”.
Maggioranza anti Greta
Ma «questa pac» è stata approvata, e a votarle contro sono stati solo i Verdi, compatti, e poi la maggioranza della sinistra europea. Tra i socialdemocratici, gruppo nel quale per l’Italia siede il Pd di cui De Castro è esponente, si sono dissociati al voto favorevole i delegati tedeschi e belgi.
Tutto il resto dell’asse politico, dai sovranisti ai liberali, dai conservatori ai popolari, piccoli e grandi, salvo eccezioni individuali si è allineato. «L’Ue ha preferito le grandi lobby dell’agroindustria», prende atto il presidente dei Verdi europei, Philippe Lamberts, che parla di green washing.
C’è un motivo per cui la Pac non è questione di settore ma linea di scontro politico: vale circa un terzo del bilancio europeo, ed è cruciale sin dai suoi esordi, negli anni Sessanta. Ursula von der Leyen, la presidente di Commissione che a parole ha fatto del green la sua priorità, per riformarla ha accettato di prendere in eredità la proposta del predecessore, Jean-Claude Juncker.
Dal principio, questa riforma nasce vecchia, e anche già bocciata sia dalla Corte dei conti europea che dagli scienziati: è poco ambiziosa e sarà fallimentare per la biodiversità, il clima, le sfide socioeconomiche. Nonostante gli impegni presi con il green deal, la nuova Pac non sovverte la vecchia in fatto di allevamenti intensivi inquinanti, uso dei pesticidi e concentrazione dei terreni in mano a pochi.
Solo i colossi
Tra le rivoluzioni mancate c’è il cosiddetto “capping”, e cioè l’idea di un tetto ai soldi incassati dai grandi proprietari terrieri. A fronte dell’ottanta per cento di soldi che finiscono al venti per cento di agricoltori più grandi – in paesi come l’Ungheria, con una concentrazione di quei soldi in mano ai latifondisti del cerchio magico del premier – non c’è stato modo di ridurre lo squilibrio che penalizza i piccoli agricoltori. Restano solo le briciole: una ridistribuzione ai piccoli del dieci per cento dei pagamenti diretti.
La dote che questa nuova Pac dovrebbe portare al clima, rispetto alla vecchia, ha il nome di «ecoschema»; ma è anch’essa a metà. L’obiettivo iniziale di dedicare almeno il 30 per cento dei fondi ad attività amiche di clima e ambiente si è ridotto, dopo i negoziati del parlamento con Commissione e governi, a un risicato 25 per cento. In più, dice Lamberts, copresidente del gruppo verde, «invece di spingere governi recalcitranti a diventare più green, si lascia nelle loro mani di decidere che cosa sia inteso come green». Ecoschema libero, o quasi. Per dirla con l’eurodeputato Eric Andrieu, uno dei relatori della riforma, «noi potremo andare in vacanza perché starà agli stati membri».
Il ruolo dei governi
Paesi come l’Italia potrebbero ad esempio puntare sull’agricoltura di precisione, col rischio di concentrare ancor di più le risorse in mano ai grandi agricoltori. Tra le novità effettive di questa politica agricola c’è proprio il ruolo crescente dei governi. Ora tutta la distribuzione del denaro europeo sarà gestita dai singoli paesi, che dovranno presentare un apposito piano nazionale entro il 31 dicembre. In Italia sono stati fatti un paio di tavoli di partenariato con sindacati e ong, ma ancora siamo indietro.
Anche la condizionalità sociale, aspetto davvero inedito di questa riforma, che dovrebbe condizionare stanziamenti e rispetto dei diritti dei lavoratori, è di fatto delegata ai governi, e visto che c’è un periodo di transizione (il learning period) non è detto che tutti i paesi la applichino dal 2023; alcuni intendono partire dal 2025.
Tutto è perduto per i sostenitori dell’ambiente? Un piccolo margine di manovra resta. Anzitutto, perché il fronte ambientalista, anche nostrano, punta ora a far pressione sul proprio governo, perché scelga il green di sostanza e non di facciata. Inoltre, come spiegano i Verdi europei, con questa Pac non sarà possibile realizzare gli obiettivi green fissati da Bruxelles stessa; e chissà che l’Ue non sia costretta a riformare la controriforma.
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